Telescopio e ingrandimento

ritratto di g.milani

a cura di Giannantonio Milani

 

Un osservatore occasionale che si appresta ad osservare attraverso un telescopio pone usualmente una domanda istintiva: quanto ingrandisce?

Di primo acchito si suppone che la capacità di avvicinare gli oggetti sia un indice di quale sia la potenza dello strumento. Ma si tratta in realtà di un problema mal posto.
Per valutare quali siano davvero le reali prestazioni di uno strumento ottico è necessario prima comprendere come si formano le immagini con alcuni richiami di ottica.
In generale noi siamo portati a considerare le proprietà della luce secondo la nostra esperienza diretta: viaggia in linea retta, si riflette sugli specchi con lo stesso angolo di incidenza, e via dicendo tutti fenomeni che rientrano nella cosiddetta ottica geometrica, la cui comprensione è abbastanza intuitiva.

Ma la luce manifesta anche una natura che sfugge alla nostra esperienza quotidiana e che è invece di fondamentale importanza nella formazione delle immagini nei sistemi ottici: la natura ondulatoria.
La luce, cioè, è assimilabile ad onde in movimento, dove la distanza tra due creste successive definisce la lunghezza d’onda.
Sappiamo che la lunghezza d’onda è correlata al colore e, ad esempio, un valore di lunghezza intorno a 450 nanometri (nm) corrisponde mediamente alla luce blu, 550 nm al verde, 650 nm al rosso… con tutti i valori e gradazioni intermedie (un nanometro, equivale ad un milionesimo di millimetro).
Le onde, come avviene anche per quelle che si propagano sull’acqua e per le onde sonore nell’aria, interferiscono tra loro quando si incontrano. E ciò che nasce da queste interferenza è di basilare importanza: ad esempio le creste di due onde diverse che si incrociano si possono sommare tra loro, mentre una cresta e un avvallamento si annullano.
A questo proposito è citato spesso l’esperimento condotto da Young dove la luce che attraversa due fenditure (S1 e S2) produce su uno schermo F bande luminose alternate a bande oscure a causa dell’interferenza tra le onde luminose.

Figura 1.  L’esperimento di Young –   figura  tratta da: http://1001miglia.blogspot.com/2007_11_01_archive.html

Figura 1.  L’esperimento di Young –
 figura  tratta da: http://1001miglia.blogspot.com/2007_11_01_archive.html

Analogamente un reticolo di diffrazione, composto da una fitta serie di rigature parallele su una superficie trasparente o riflettente, per interferenza produce una immagine luminosa centrale affiancata da “spettri”, cioè da bande luminose dove la luce è scomposta nei diversi colori, come in un arcobaleno.
Onde di lunghezza diversa (quindi di verso colore) infatti interferiscono in modo un po’ diverso una dall’altra.
Questi fenomeni sono alla base della formazione delle immagini nei telescopi. Di fatto qualunque oggetto che si trovi lungo un cammino ottico crea fenomeni di interferenza.
Nei telescopi lo fa già il bordo netto della cella che racchiude la lente dell’obbiettivo, se il telescopio è rifrattore, o il bordo stesso dello specchio, se è riflettore. L’effetto finale è del tutto analogo a quello prodotto da un reticolo di diffrazione, con la differenza di avere un elemento con bordo circolare anziché rettilineo, e anziché una banda, o un punto luminoso centrale, affiancata da altre immagini più deboli, avremo una figura di rotazione a simmetria circolare.
L’immagine prodotta da un telescopio, e da qualunque tipo di obbiettivo, dirigendo verso di esso un fascio di raggi paralleli (nel nostro caso la luce proveniente dalle stelle) è infatti composta da una piccola macchia luminosa centrale, dove è concentrala la maggior parte della luce, circondato da anelli concentrici via via più deboli.
Si tratta del disco di Airy.
Ed è questa immagine che di fatto vediamo quando osserviamo le stelle attraverso un telescopio e non l’immagine reale del disco della stella stessa.

Figura 2. Il disco di Airy

Figura 2. Il disco di Airy

Le distanze sono talmente grandi che attraverso i nostri telescopi non potremo mai osservare realmente il disco della superficie di una stella, essendo questo sempre molto più piccolo del disco di Airy. Ed è proprio la dimensione del disco di Airy a determinare le caratteristiche di un telescopio, la sua capacità di farci vedere dei dettagli più o meno fini, e, di conseguenza, anche quanto è conveniente ingrandire .
E’ curioso notare che la dimensione reale del disco di Airy dipende unicamente da quanto è convergente il fascio dei raggi luminosi che giunge al fuoco del telescopio dopo aver attraversato l’obbiettivo, indipendentemente dalle dimensioni dell’obbiettivo stesso.

Il rapporto f tra lunghezza focale e diametro dell’obbiettivo definisce l’apertura relativa, un parametro che indica quanto sono convergenti i raggi luminosi. Chi ha dimestichezza con la fotografia comprenderà al volo di cosa si tratta perché f ha lo stesso significato del valore del diaframma negli obbiettivi fotografici.
Un piccolo valore di f indica un obbiettivo luminoso e fascio molto convergente, un grande valore un obbiettivo poco luminoso e fascio poco convergente al fuoco. Lo stesso avviene con i telescopi, ma ha significato solo in fotografia o in riprese con telecamere. Nell’osservazione visuale telescopi di uguale diametro, anche se di diverso tipo, a parità di ingrandimento, avranno la stessa resa. Il termine “obbiettivo luminoso” non ha particolare significato nell’osservazione visuale.
Ciò che accade nella pratica è che le dimensioni del disco di Airy sono in relazione unicamente del valore f .
Ciò significa che, ad esempio, osservando una stella attraverso un telescopio con apertura f = 4, ci apparirà delle spesse dimensioni sia che osserviamo con un piccolo obbiettivo da 5 cm (un binocolo ad esempio) che con un grande specchio da 5 metri come quello di Monte Palomar.
Ovviamente ciò che cambia è la lunghezza focale, e con essa la scala lineare al fuoco dello strumento.
Senza entrare in dettagli basta ricordare che nel nostro esempio l’immagine reale della Luna prodotta dall’obbiettivo da 5 cm sarà grande poco meno di 2 mm, mentre con il 5 metri sarà poco meno di 20 cm.
Il dischetto di Airy nelle due immagini corrisponderà ad una dimensione lineare in km sulla superficie lunare molto diversa nelle due immagini, indicando qual è il dettaglio più piccolo che potremo percepire osservando attraverso i due telescopi.

Al telescopio per avere visioni dettagliate è fondamentale ingrandire almeno fino a distinguere particolari di dimensione equivalenti a quelle del disco di Airy.  Nella pratica è conveniente ingrandire anche oltre, finché raggiungiamo una combinazione ideale tra luminosità e contrasto, e questo dipende sia dall’oggetto osservato che dalle condizioni del cielo.

Ricordiamo che, come detto in precedenza, qualunque ostacolo incontrato dalla luce nel cammino attraverso lo strumento produce fenomeni di interferenza.
Nel nostro caso le lamine che sostengono lo specchio secondario nei riflettori provocano i 4 (o più) raggi luminosi che osserviamo intorno alle stelle luminose, lo stesso specchio secondario modifica la distribuzione della luce nel disco di Airy, e qualunque altra cosa che entri nel cammino ottico crea disturbo. Anche viti sporgenti o le graffe che tengono in posizione gli specchi se entrano nel cammino ottico dello strumento. Un telescopio ideale dovrebbe avere il minimo indispensabile di interferenze sul cammino dei raggi luminosi e superfici ben levigate per fornire il massimo della sua risoluzione.
In generale la risoluzione di un telescopio viene valutata per mezzo dalla formula di Dawes, che determina il minimo dettaglio teorico risolvibile espresso in secondi d’arco.

 La formula è
                                                            R= 116/D                                                        (1)

Essendo R la risoluzione in secondi d’arco e D il diametro dell’obbiettivo del telescopio in millimetri.
Si parla sempre di risoluzione angolare in quanto le dimensioni lineari (in centimetri, metri o chilometri) del minimo dettaglio distinguibile su un oggetto dipendono ovviamente dalla sua distanza dall’osservatore.

Possiamo utilizzare questa formula per confrontare la resa di diversi strumenti e troveremo ad esempio i valori riassunti nella tabella I.

TABELLA I

DIAMETRO TELESCOPIO
(mm)

RISOLUZIONE TEORICA
(secondi d’arco)

50

2,3

100

1,2

200

0,6

400

0,3

Dalla comparazione è evidente che la risoluzione migliora in modo direttamente proporzionale al diametro  dell’obbiettivo. La risoluzione angolare può poi essere convertita in risoluzione lineare relativa all’oggetto che ci interessa osservare, ad esempio la Luna.

Figura 3. Risoluzione teorica angolare (secondi d’arco) e lineare (in km) relativamente alla superficie lunare) per telescopi di diverso diametro.
Figura 3. Risoluzione teorica angolare (secondi d’arco) e lineare (in km) relativamente alla superficie lunare) per telescopi di diverso diametro.

Osservando la Luna con un piccolo telescopio da 50 mm di diametro dovremmo risolvere dettagli minimi di circa 4,3 km, con un 120 mm 1,8 km, mentre con un 300 mm si scende sotto il chilometro.
Questo sicuramente è indicativo, ma ricordiamo che molti fattori contribuiscono a metterci i bastoni tra le ruote. Prima di tutto la turbolenza atmosferica, che limita fortemente la risoluzione effettiva di uno strumento. Poi conta anche lo schema ottico, la qualità di lavorazione di specchi e lenti, l’entità dell’ostruzione dovuta allo specchio secondario nei telescopi riflettori.
E anche la collimazione delle ottiche stesse: se non ben fatta peggiora molto l’immagine e limita molto la risoluzione. Anche la qualità degli oculari che utilizziamo in funzione dello strumento è importante, inutile avere un costoso obbiettivo apocromatico o uno specchio di eccellente fattura e usare un oculare di bassa qualità preso da un telescopio giocattolo. Ad esempio 30-40 anni fa i telescopi riflettori più economici erano di tipo newtoniano da 114 mm di diametro e un metro di focale ed erano considerati abbastanza scadenti dal punto di vista ottico, ma in realtà lo erano solo perché venivano forniti con oculari di serie di pessima qualità. Non entreremo qui in troppi dettagli, ma basti sapere che la resa effettiva di un telescopio dipende davvero da molti fattori.
Per quanto riguarda la risoluzione è importante sottolineare anche che la legge di Dawes va presa come indicativa, e che nella realtà la risoluzione dipende anche dal contrasto dei dettagli che andiamo ad osservare e dal rapporto segnale/rumore, una quantità davvero cruciale in astronomia.
Il segnale nel nostro caso è la quantità di luce che arriva al nostro occhio e il rumore la luminosità del fondo cielo sommata a tutte le fondi di disturbo residue (turbolenza atmosferica, aberrazioni del sistema ottico, difetti del telescopio, ecc…). Il limite di Dawes in generale potrà essere vicino al vero per dettagli mediamente ben contrastati, o potrà essere addirittura di molto superato in caso di contrasto particolarmente elevato.
Un esempio classico è la divisone di Cassini negli anelli di Saturno, osservabile anche con piccoli telescopi, nonostante sia teoricamente alla portata di telescopi di almeno 25-30 cm di diametro.  Linee ad alto contrasto vengono infatti risolte ben al di sotto del valore di Dawes e un classico esempio di questo fatto sono i cavi delle linee elettriche, distinguibili facilmente ad occhio nudo anche a grande distanza contro il fondo del cielo, pur essendo teoricamente molto al di sotto del potere risolutivo dell’occhio secondo la legge di Dawes.
Si comprende dunque che definire il potere risolutivo è in realtà una questione davvero molto complessa e che andrebbe valutata in funzione delle caratteristiche ottiche del sistema (che definiscono la distribuzione della luce nel disco di Airy), del contrasto e luminosità dei dettagli osservati, e della loro tipologia (linee o dettagli diffusi), nonché della turbolenza atmosferica.

La tabella II riporta gli ingrandimenti mediamente suggeriti nell’osservazione dei pianeti principali (Marco Falorni e Paolo Tanga, Osservare i Pianeti, Quaderni di l’Astronomia 1994)Figura 3. Risoluzione teorica angolare (secondi d’arco) e lineare (in km) relativamente alla superficie lunare) per telescopi di diverso diametro.

Osservando la Luna con un piccolo telescopio da 50 mm di diametro dovremmo risolvere dettagli minimi di circa 4,3 km, con un 120 mm 1,8 km, mentre con un 300 mm si scende sotto il chilometro.
Questo sicuramente è indicativo, ma ricordiamo che molti fattori contribuiscono a metterci i bastoni tra le ruote.
Prima di tutto la turbolenza atmosferica, che limita fortemente la risoluzione effettiva di uno strumento.
Poi conta anche lo schema ottico, la qualità di lavorazione di specchi e lenti, l’entità dell’ostruzione dovuta allo specchio secondario nei telescopi riflettori.
E anche la collimazione delle ottiche stesse: se non ben fatta peggiora molto l’immagine e limita molto la risoluzione.
Anche la qualità degli oculari che utilizziamo in funzione dello strumento è importante, inutile avere un costoso obbiettivo apocromatico o uno specchio di eccellente fattura e usare un oculare di bassa qualità preso da un telescopio giocattolo. Ad esempio 30-40 anni fa i telescopi riflettori più economici erano di tipo newtoniano da 114 mm di diametro e un metro di focale ed erano considerati abbastanza scadenti dal punto di vista ottico, ma in realtà lo erano solo perché venivano forniti con oculari di serie di pessima qualità. Non entreremo qui in troppi dettagli, ma basti sapere che la resa effettiva di un telescopio dipende davvero da molti fattori.
Per quanto riguarda la risoluzione è importante sottolineare anche che la legge di Dawes va presa come indicativa, e che nella realtà la risoluzione dipende anche dal contrasto dei dettagli che andiamo ad osservare e dal rapporto segnale/rumore, una quantità davvero cruciale in astronomia. Il segnale nel nostro caso è la quantità di luce che arriva al nostro occhio e il rumore la luminosità del fondo cielo sommata a tutte le fondi di disturbo residue (turbolenza atmosferica, aberrazioni del sistema ottico, difetti del telescopio, ecc…). Il limite di Dawes in generale potrà essere vicino al vero per dettagli mediamente ben contrastati, o potrà essere addirittura di molto superato in caso di contrasto particolarmente elevato. Un esempio classico è la divisone di Cassini negli anelli di Saturno, osservabile anche con piccoli telescopi, nonostante sia teoricamente alla portata di telescopi di almeno 25-30 cm di diametro.
Linee ad alto contrasto vengono infatti risolte ben al di sotto del valore di Dawes e un classico esempio di questo fatto sono i cavi delle linee elettriche, distinguibili facilmente ad occhio nudo anche a grande distanza contro il fondo del cielo, pur essendo teoricamente molto al di sotto del potere risolutivo dell’occhio secondo la legge di Dawes.
Si comprende dunque che definire il potere risolutivo è in realtà una questione davvero molto complessa e che andrebbe valutata in funzione delle caratteristiche ottiche del sistema (che definiscono la distribuzione della luce nel disco di Airy), del contrasto e luminosità dei dettagli osservati, e della loro tipologia (linee o dettagli diffusi), nonché della turbolenza atmosferica.

La tabella II riporta gli ingrandimenti mediamente suggeriti nell’osservazione dei pianeti principali (Marco Falorni e Paolo Tanga, Osservare i Pianeti, Quaderni di l’Astronomia 1994)

Tabella II

Diametro dell’obbiettivo

PIANETA

100 mm

150 mm

200 mm

250

300

Venere

150 X

200 X

250 X

300 X

300 X

Marte

250 X

300 X

400 X

450 X

500 X

Giove

150 X

180 X

220 X

280 X

350 X

Saturno

120 X

150 X

200 X

250 X

300 X

Questa tabella illustra nella pratica quanto detto fino ad ora in quanto vediamo che i diversi pianeti, osservati attraverso uno stesso telescopio,  richiedono ingrandimenti differenti per raggiungere le condizioni ottimali.
I dettagli di Marte sono generalmente più contrastati rispetto alle tenui nubi di Saturno o di Giove e questo incide sulla scelta dell'ingrandimento. Naturalmente i valori sono orientativi e potremo riscontrare che il nostro strumento, anche in funzione del nostro occhio, raggiunge la resa ottimale con ingrandimenti leggermente diversi da quelli indicati.

Ma quanto grande ci appare un pianeta osservato attraverso l'oculare di un telescopio? Pensando che il telescopio ingrandendo "avvicina" gli oggetti, istintivamente si immagina di poter vedere un disco di grandi dimensioni apprezzabili, come in una fotografia.  Ma non è proprio cosi'.  Osservando ad esempio a 200 ingrandimenti, il pianeta Giove ci apparira' come un dischetto di soli 15 millimetri osservato da mezzo metro di distanza (circa la lunghezza di un braccio teso).  Il globo di Saturno sarà  circa di 8 millimetri (ma niente paura, gli anelli sono molto piu' grandi!) e Marte poco più di 1 centimetro nelle apparizioni favorevoli. Si puo' restare a volte delusi, ma d'altra parte ci si scontra con una delle più dure realtà dell'astronomia: le distanze tra i corpi celesti sono immense se rapportate alla scala delle dimensioni tipicamente umane. I pianeti per quanto li ingrandiamo rimangono di fatto dei mondi molto lontani da noi. 

Dal punto di vista osservativo non prendiamo la cosa come un ostacolo insormontabile, per secoli gli astronomi hanno studiato il cielo con il solo ausilio dei propri occhi. Oggi siamo abituati alle comodità della tecnologia, mentre mettendo l'occhio al telescopio ritorniamo come gli osservatori di un paio di secoli fa. Bisogna avere un po' di pazienza ed imparare ad usare i nostri occhi in condizioni estreme completamente differenti dalla situazione diurna. Le soddisfazioni e le sorprese non mancheranno. Ma di questo tratteremo in un successivo articolo.


Per concludere, dopo aver brevemente esplorato come si formano le immagini al telescopio e il significato dell’ingrandimento, dovrebbe essere chiaro che il parametro fondamentale di un telescopio è dato dal diametro dell’obbiettivo.
Questo determina sia la quantità di luce raccolta che la capacità di osservare dettagli più o meno fini su di un dato oggetto. La potenza di un telescopio è in primis la dimensione dell’obbiettivo.

Il tipo, rifrattore o riflettore, assieme allo schema ottico, definiscono altre caratteristiche certamente importanti. Ma la scelta di uno strumento sarà alla fine personale e dettata delle nostre preferenze ed esigenze, oltre che dal nostro portafoglio. Un parametro importante può essere spesso anche la valutazione dell’ingombro nel caso si voglia uno strumento facilmente trasportabile o si abbia poco spazio in casa. Il rifrattore ad esempio è teoricamente ideale in quanto privo di ostruzione, ma se l’obbiettivo non è apocromatico potrà esserci sempre un minimo aberrazione cromatica residua. E d’altra parte, oltre un certo diametro, l’ingombro di un rifrattore diviene proibitivo, senza considerare il costo elevato. Da considerare dal lato opposto che un classico ed economico telescopio newtoniano, se adeguatamente progettato e costruito, può avere una resa sostanzialmente equivalente a quella di un assai più costoso costoso rifrattore apocromatico.  

Ciascuno strumento alla fine ha i suoi pregi e i suoi difetti e dovremo quindi valutare molti aspetti nell’effettuare la nostra scelta.