Astronomia pratica

Questa sezione del nostro sito è nata per far fronte ad un'esigenza molto comune fra le persone che si avvicinano all'astronomia così come agli astrofili, che si traduce in una semplice domanda:

Come si fa ?

Abbiamo pensato di dedicare questa area ad una serie di articoli e pagine da dedicare a vari argomenti di ordine pratico che vanno dalla spiegazione su come allineare il telescopio piuttosto che scegliere il tipo di telescopio fino ai tutorial su come elaborare le immagini.

Gli articoli che verranno pubblicati sono scritti dai nostri soci, volontari. Buona lettura

Il mio primo telescopio: cosa mi compro ?

a cura di Marco Boesso



Nelle occasioni di incontro, durante le serate pubbliche ed ovviamente durante i corsi tenuti dall'Associazione, è ricorrente, prima o poi, sentirsi dire:

     “che bello, che bello, voglio anch'io, mi compro un telescopio!

qualche secondo dopo, la domanda:

     ”ma voi che siete esperti, cosa mi consigliate?

alla fine arriva il pugno nello stomaco:

     “che telescopio mi compro?”

E qui parte l'imbarazzo perché queste quattro paroline, apparentemente semplici ed innocenti, richiedono una risposta che semplice non lo è affatto (e a volte nemmeno tanto innocente, se a darvela è il commesso di un negozio).
Per quanto sopra, ho pensato di scrivere queste righe che, senza troppe pretese, cerchino di dare almeno quelle nozioni basilari e quei piccoli consigli pratici che possano “orientare” il neo astrofilo su come spendere i suoi sudati Euri.
Per concludere la premessa, occorre ricordare che il telescopio è comunque un qualcosa di personale, che ognuno di noi sceglierà così come sceglie un'auto, in base ai propri gusti, a quello che ci vuole fare, a quanto intende spendere... non esiste IL telescopio, esistono MOLTI telescopi con caratteristiche e, ahimè, prezzi diversi.

Come funziona un telescopio?

Tutti i telescopi fanno la stessa cosa: fanno convergere i raggi di luce in un punto detto Fuoco per formare un'immagine ingrandita di quello che gli sta davanti. Con un oculare, che è identico nelle varie configurazioni, noi raccogliamo questa immagine e la rendiamo visibile al nostro occhio.
Esistono sostanzialmente due tipologie di telescopi:

Schema di telescopio rifrattore

Schema di un telescopio rifrattore

 

 

 

 

 

 


vedi nota 1

Rappresenta in sostanza, la moderna evoluzione del telescopio di Galileo Galilei, dove al posto di lenti semplici si utilizzano più lenti realizzate con vetri diversi, e l'oculare non e' una semplice lente negativa, ma un sistema di lenti più complesso che consente di abbracciare una campo molto più ampio rispetto alla configurazione galileiana.

Schema di telescopio riflettore di tipo Newtoniano
questo schema è stato inventato da Isaac Newton per ovviare a certi problemi tipici dei rifrattori.

Schema di un telescopio newtoniano

vedi nota 1

 

Schema di telescopio catadiottrico (nella figura una variante dalla configurazione Maksutov)

 - immagine da inserire -

Di telescopi catadiottrici ve ne sono di moltissimi tipi, il più diffuso utilizza la configurazione Schmidt-Cassegrain.

Schema di telescopio Schmidt-Cassegrain
vedi nota 1

 

Caratteristiche fondamentali di un telescopio.

Tutti gli strumenti, in qualsiasi configurazione essi siano, sono caratterizzati da due parametri fondamentali:

Schema ottico di lente semplice

Questi due parametri sono caratteristici di ogni strumento, vengono stabiliti in fase di costruzione e determinano il funzionamento del nostro telescopio. Combinati insieme esprimono il Rapporto Focale f=F/D

Quindi quando sulla targhetta leggo D=100 F=1000 significa che quel telescopio ha un diametro di 10 cm, una lunghezza focale di 1 metro ed il rapporto focale f/10

Cominciamo dal diametro: più questo è grande, più luce passa e quindi più luminoso sarà lo strumento. Attenzione al fatto che quello che conta è l'AREA dell'obiettivo; questo significa che incrementi anche piccoli del diametro comporteranno significativi aumenti della quantità di luce che verrà raccolta.
Ad esempio:

un diametro 100 mm avrà un'area di (50x50x3.14)=7.850 mm2

un diametro 120 mm avrà un'area di (60x60x3.14)=11.304 mm2

Quindi un incremento del 20% del diametro fornisce un incremento del 44% in termini di area e, quindi, di luce che arriverà al nostro occhio. Raddoppiando il diametro la luce raccolta e' quattro volte maggiore.

Il diametro incide anche sulla capacità di osservare dettagli: maggiore è l'apertura dello strumento più dettagli minuti potremo osservare. ....almeno in teoria. Vi sono infatti molti fattori che incidono tra i quali la qualità e precisione della lavorazione ottica, la bontà dei vetri utilizzati e molto altro. Ma al di là delle problematiche strumentali è da considerare anche l'effetto della nostra atmosfera che tende a deteriorare le immagini ed a renderle poco nitide. Questo e' tanto più vero se si osserva da località non ottimali (non per nulla i grandi osservatori astronomici vengono costruiti su siti selezionati in alta quota, al di sopra degli strati più turbolenti della nostra atmosfera).

In generale la turbolenza dell'atmosfera diviene via via più sensibile indicativamente con telescopi con un diametro maggiore di 8-10 cm. Al crescere dell'apertura dell'obbiettivo cresce anche la sensibilità ai disturbi causati dall'atmosfera.

Ma qui la questione diventa complicata e non andiamo oltre. E' sufficiente comprendere che avere un telescopio molto grande in un luogo non adatto potrebbe rivelarsi addirittura controproducente.

Per quanto riguarda la lunghezza focale le considerazioni diventano un po' più complesse.

La lunghezza focale F, combinata con la lunghezza focale dell'oculare F' determina gli ingrandimenti (I) che realizziamo e precisamente.

I=F/F'

da questo appare chiaro che basta cambiare oculare per cambiare il numero di ingrandimenti. L'ingrandimento utile (e utilizzabile) dipende comunque dal diametro dell'obbiettivo. Possiamo realmente avere un telescopio da 5 cm e ingrandire centinaia di volte, ma non vedremo assolutamente nulla. Ricordiamo che il parametro base del telescopio è il diametro. Definire la potenza di un telescopio in base agli ingrandimenti non ha in realtà alcun significato (per capirci non esiste un telescopio ad esempio da 500 ingrandimenti perché virtualmente con gli oculari giusti con qualunque telescopio potremmo ingrandire 500 volte).

Focali lunghe facilitano la possibilità di elevati ingrandimenti, ma d'altro canto le focali corte rendono lo strumento più luminoso nelle riprese fotografiche (nell'osservazione visuale invece ciò che conta è solo il diametro dell'obbiettivo e l'ingrandimento usato). Inoltre, senza scendere troppo nei dettagli, la lunghezza focale influenza le varie aberrazioni (difetti), ottiche e/o cromatiche, che si riscontrano nei telescopi.

Empiricamente, per uso visuale (non fotografico) si possono ritenere buoni compromessi i rapporti focali tra f/6 e f/12.

Si, va bene, ma allora cosa mi compro?

Ancora un po' di pazienza, ci stiamo arrivando...
E' arrivato il momento di confrontare le varie configurazioni: meglio un rifrattore o un riflettore? Un Newton o un Catadiottrico?

Pregi e difetti delle varie configurazioni.

Rifrattore:

PRO: luminoso, immagini dettagliate e definite;

CONTRO: per ridurre le aberrazioni cromatiche sono necessarie varie lenti, che lo rendono più costoso; lunghezza del tubo pressoché pari alla focale; diametro massimo intorno ai 120 mm (per poter essere agevolmente trasportato).

Riflettori: in generale l'ostruzione determinata dallo specchio secondario richiede diametri maggiori per avere le stesse prestazioni di un rifrattore (+20-30%)

Newtoniano

PRO: la semplicità costruttiva lo rende il più economico a parità di diametro. A parità di focale è di poco più corto di un rifrattore.

CONTRO: la posizione dell'oculare lo rende piuttosto scomodo da utilizzare in alcune posizioni; nei grandi diametri il tubo aperto è sensibile ai movimenti dell'aria al suo interno; necessita di calibrazione periodica degli specchi; la presenza dello specchio secondario e dei suoi supporti deteriorano la risoluzione e il contrasto delle immagini, ma se opportunamente dimensionati e realizzati penalizzano in modo trascurabile.

Catadiottrico

PRO: lo schema ottico e l'utilizzo della lastra correttrice consentono di ottenere un ingombro molto ridotto, a vantaggio della trasportabilità, mantenendo una focale equivalente lunga.

CONTRO: è più costoso di un Newton di pari diametro. Lo specchio secondario ha dimensioni spesso elevate. Necessita di un controllo periodico della collimazione delle ottiche.

Riassumendo

Come detto in premessa, non esiste IL telescopio. Adesso abbiamo elementi in più per decidere, ma la scelta è sempre soggettiva.

Vediamo adesso qualche esempio di strumenti che possono essere acquistati da un principiante ma che non verranno buttati dopo poco tempo. (prezzi marzo 2010)

Telescopio rifrattoreTelescopio newtoniano

Telescopio maksutovTelescopio maksutov


La montatura.

Montatura altazimutale, immagine storicaFino ad ora ci siamo preoccupati dello strumento. E' ora di pensare a quello che sta sotto lo strumento: la montatura con relativo cavalletto.

Molto (troppo) spesso questo aspetto viene trascurato in fase di acquisto; gli stessi commessi dei negozi magnificano le doti dello strumento, soprattutto gli ingrandimenti, ma non una parola su chi ha l'ingrato compito di sorreggere, puntare, muovere e soprattutto non far tremolare il nostro giocattolo. Un ottimo telescopio su di una montatura instabile non potrà sfruttare, se non in piccola parte, le sue potenzialità.

Tralasciamo la classica montatura a forcella, inadatta ai nostri scopi (nel dipinto a fianco, una mooolto classica)

La montatura che utilizzeremo sarà quella di tipo Equatoriale, comunemente detta “alla Tedesca”.

Come si vede nello schema, questa montatura è composta da due assi di rotazione, posti a 90° fra loro. Le rispettive rotazioni permettono il puntamento in ogni direzione.

Schema di principio di montatura equatorialeLa caratteristica determinante, però, è quella di poter inclinare e bloccare a nostro piacimento l'asse orario. Puntando questo asse esattamente sulla Stella Polare e dotando la montatura di un apposito motorino detto di Ascensione Retta (AR), sarà possibile effettuare il cosiddetto “inseguimento”, vale a dire che una volta puntato un oggetto, il telescopio compenserà automaticamente la rotazione Terrestre, mantenendolo sempre inquadrato ed evitandoci di agire continuamente sulle manopole. Su montature di fascia medio-alta, il puntamento viene effettuato mediante un apposito “cannocchiale polare” inserito direttamente nell'asse.

Da ultimo, la montatura e relativo treppiede devono essere sufficientemente “massicci” rispetto al peso del telescopio da risultare stabili, smorzare velocemente le vibrazioni e non oscillare al minimo alito di brezza.


Qui sotto, esempi di montature “gracili”.

Vengono vendute in dotazione ai relativi strumenti, per una cifra totale intorno ai 300€ (da qualche parte bisogna pure risparmiare...) e rappresentano un pessimo acquisto. Una montatura ballerina renderà l'esperienza osservativa un tale tormento da farci, probabilmente, cambiare hobby...

Montatura gracileMontatura gracile

Discorso a parte sono poi le montature computerizzate, eccone un paio dove la prima monta un rifrattore, la seconda un catadiottrico.

Montatura computerizzata con rifrattoreMontatura computerizzata con riflettore

Queste montature sono caratterizzate dall'essere controllate da un computer, che comanda i motori che azionano gli assi di rotazione. Inoltre, contengono in memoria cataloghi con migliaia di oggetti celesti e sono in grado di puntarli automaticamente, semplicemente selezionandoli sulla tastiera.

In questo caso non esprimo un parere tecnico, la maggior parte sono valide, ma solo la mia opinione personale:

il neofita che si avvicina all'astronomia dovrebbe innanzitutto imparare a conoscere il cielo ad occhio nudo, saper leggere una carta stellare, riconoscere costellazioni, pianeti, individuare almeno le stelle più significative. Per tutto ciò, quale migliore palestra di un telescopio da puntare manualmente, col solo aiuto del nostro occhio e delle nostre conoscenze? Solo in seguito, superata felicemente questa fase, risulterà comodo passare ad una montatura che “fa tutto da sola”; magari per individuare quegli oggetti, non visibili ad occhio nudo e nemmeno nel cercatore, che ci sono sempre sfuggiti.

RIASSUMENDO:

la montatura dovrà essere adeguata al peso ed alla forma dello strumento che ci metteremo sopra: a parità di peso, un rifrattore lungo un metro e 20 sarà più esigente di un catadiottrico lungo 35 cm.

sarà manuale ma con almeno la motorizzazione in A.R. per l'inseguimento

non guasta la presenza del cannocchiale polare per eseguire lo stazionamento.

 

Come evitare che il telescopio finisca in soffitta

Sento spesso racconti di telescopi comprati o regalati che finiscono miseramente in soffitta, in cantina o in garage. Queste le motivazioni più ricorrenti:

  1. credevo di vedere le stelle, ma vedo solo puntini

  2. anche se guardo i pianeti, vedo solo una piccola pallina colorata

  3. non so come utilizzarlo

risposte:

  1. le stelle sono troppo distanti, anche con telescopi molto potenti si vedono sempre puntiformi

  2. non dobbiamo prendere a paragone le immagini che vediamo in televisione o su Internet: quelle sono fatte con telescopi enormi, alcuni addirittura in orbita per non essere disturbati dall'atmosfera e sono normalmente elaborate per accentuare i dettagli ed i colori. I piccoli strumenti amatoriali non possono far loro concorrenza, dobbiamo essere consapevoli di cosa potremo vedere e cosa no. Ma anche quella piccola pallina colorata, se pensiamo che stiamo vedendo con i nostri occhi un pianeta lontano centinaia di milioni di km o una nebulosa distante decine di anni-luce, acquista un certo fascino... Pensiamo anche che per alcuni secoli l'uomo ha osservato al telescopio solo con il suo occhio, ...eppure quante cose ha visto e quante scoperte ha effettuato!

  3. questa è la peggiore... prima di guidare la macchina l'avete presa la patente? Si? E cosa vi faceva pensare che usare un telescopio fosse così facile da non aver bisogno di imparare niente? La cosa migliore da fare per iniziare a guardare le meraviglie del cosmo (o del Creato, fate voi...) è seguire almeno un corso base, tutte le Associazioni di Astrofili ne tengono periodicamente. Fatto il corso, restate in contatto con i Soci, partecipate alle serate osservative; troverete persone appassionate e competenti, che saranno ben felici di aiutarvi e consigliarvi, insomma di condividere con voi questa Passione (si, con la P maiuscola) che hanno dentro.

Cieli sereni a tutti.

Marco

 

Ringraziamenti

Desidero ringraziare Giannantonio Milani per le sue preziose correzioni ed integrazioni al testo.

Più in generale, tutti i soci della AAE che a vario titolo hanno contribuito, anche solo con qualche chiacchierata al ...chiaro di luna.

 

Marco Boesso
Socio Associazione Astronomica Euganea
Padova, marzo 2010

 

Note

  1. Le immagini di pag. 3 e 4 sono tratte da Wikipedia, e il suo Autore, Szőcs Tamás le ha pubblicate secondo la licenza Creative Commons

È permesso copiare, distribuire e/o modificare questo documento in base ai termini della GNU Free Documentation License, Versione 1.2 o successive pubblicata dalla Free Software Foundation;

Telescopio e ingrandimento

a cura di Giannantonio Milani

 

Un osservatore occasionale che si appresta ad osservare attraverso un telescopio pone usualmente una domanda istintiva: quanto ingrandisce?

Di primo acchito si suppone che la capacità di avvicinare gli oggetti sia un indice di quale sia la potenza dello strumento. Ma si tratta in realtà di un problema mal posto.
Per valutare quali siano davvero le reali prestazioni di uno strumento ottico è necessario prima comprendere come si formano le immagini con alcuni richiami di ottica.
In generale noi siamo portati a considerare le proprietà della luce secondo la nostra esperienza diretta: viaggia in linea retta, si riflette sugli specchi con lo stesso angolo di incidenza, e via dicendo tutti fenomeni che rientrano nella cosiddetta ottica geometrica, la cui comprensione è abbastanza intuitiva.

Ma la luce manifesta anche una natura che sfugge alla nostra esperienza quotidiana e che è invece di fondamentale importanza nella formazione delle immagini nei sistemi ottici: la natura ondulatoria.
La luce, cioè, è assimilabile ad onde in movimento, dove la distanza tra due creste successive definisce la lunghezza d’onda.
Sappiamo che la lunghezza d’onda è correlata al colore e, ad esempio, un valore di lunghezza intorno a 450 nanometri (nm) corrisponde mediamente alla luce blu, 550 nm al verde, 650 nm al rosso… con tutti i valori e gradazioni intermedie (un nanometro, equivale ad un milionesimo di millimetro).
Le onde, come avviene anche per quelle che si propagano sull’acqua e per le onde sonore nell’aria, interferiscono tra loro quando si incontrano. E ciò che nasce da queste interferenza è di basilare importanza: ad esempio le creste di due onde diverse che si incrociano si possono sommare tra loro, mentre una cresta e un avvallamento si annullano.
A questo proposito è citato spesso l’esperimento condotto da Young dove la luce che attraversa due fenditure (S1 e S2) produce su uno schermo F bande luminose alternate a bande oscure a causa dell’interferenza tra le onde luminose.

Figura 1.  L’esperimento di Young –   figura  tratta da: http://1001miglia.blogspot.com/2007_11_01_archive.html

Figura 1.  L’esperimento di Young –
 figura  tratta da: http://1001miglia.blogspot.com/2007_11_01_archive.html

Analogamente un reticolo di diffrazione, composto da una fitta serie di rigature parallele su una superficie trasparente o riflettente, per interferenza produce una immagine luminosa centrale affiancata da “spettri”, cioè da bande luminose dove la luce è scomposta nei diversi colori, come in un arcobaleno.
Onde di lunghezza diversa (quindi di verso colore) infatti interferiscono in modo un po’ diverso una dall’altra.
Questi fenomeni sono alla base della formazione delle immagini nei telescopi. Di fatto qualunque oggetto che si trovi lungo un cammino ottico crea fenomeni di interferenza.
Nei telescopi lo fa già il bordo netto della cella che racchiude la lente dell’obbiettivo, se il telescopio è rifrattore, o il bordo stesso dello specchio, se è riflettore. L’effetto finale è del tutto analogo a quello prodotto da un reticolo di diffrazione, con la differenza di avere un elemento con bordo circolare anziché rettilineo, e anziché una banda, o un punto luminoso centrale, affiancata da altre immagini più deboli, avremo una figura di rotazione a simmetria circolare.
L’immagine prodotta da un telescopio, e da qualunque tipo di obbiettivo, dirigendo verso di esso un fascio di raggi paralleli (nel nostro caso la luce proveniente dalle stelle) è infatti composta da una piccola macchia luminosa centrale, dove è concentrala la maggior parte della luce, circondato da anelli concentrici via via più deboli.
Si tratta del disco di Airy.
Ed è questa immagine che di fatto vediamo quando osserviamo le stelle attraverso un telescopio e non l’immagine reale del disco della stella stessa.

Figura 2. Il disco di Airy

Figura 2. Il disco di Airy

Le distanze sono talmente grandi che attraverso i nostri telescopi non potremo mai osservare realmente il disco della superficie di una stella, essendo questo sempre molto più piccolo del disco di Airy. Ed è proprio la dimensione del disco di Airy a determinare le caratteristiche di un telescopio, la sua capacità di farci vedere dei dettagli più o meno fini, e, di conseguenza, anche quanto è conveniente ingrandire .
E’ curioso notare che la dimensione reale del disco di Airy dipende unicamente da quanto è convergente il fascio dei raggi luminosi che giunge al fuoco del telescopio dopo aver attraversato l’obbiettivo, indipendentemente dalle dimensioni dell’obbiettivo stesso.

Il rapporto f tra lunghezza focale e diametro dell’obbiettivo definisce l’apertura relativa, un parametro che indica quanto sono convergenti i raggi luminosi. Chi ha dimestichezza con la fotografia comprenderà al volo di cosa si tratta perché f ha lo stesso significato del valore del diaframma negli obbiettivi fotografici.
Un piccolo valore di f indica un obbiettivo luminoso e fascio molto convergente, un grande valore un obbiettivo poco luminoso e fascio poco convergente al fuoco. Lo stesso avviene con i telescopi, ma ha significato solo in fotografia o in riprese con telecamere. Nell’osservazione visuale telescopi di uguale diametro, anche se di diverso tipo, a parità di ingrandimento, avranno la stessa resa. Il termine “obbiettivo luminoso” non ha particolare significato nell’osservazione visuale.
Ciò che accade nella pratica è che le dimensioni del disco di Airy sono in relazione unicamente del valore f .
Ciò significa che, ad esempio, osservando una stella attraverso un telescopio con apertura f = 4, ci apparirà delle spesse dimensioni sia che osserviamo con un piccolo obbiettivo da 5 cm (un binocolo ad esempio) che con un grande specchio da 5 metri come quello di Monte Palomar.
Ovviamente ciò che cambia è la lunghezza focale, e con essa la scala lineare al fuoco dello strumento.
Senza entrare in dettagli basta ricordare che nel nostro esempio l’immagine reale della Luna prodotta dall’obbiettivo da 5 cm sarà grande poco meno di 2 mm, mentre con il 5 metri sarà poco meno di 20 cm.
Il dischetto di Airy nelle due immagini corrisponderà ad una dimensione lineare in km sulla superficie lunare molto diversa nelle due immagini, indicando qual è il dettaglio più piccolo che potremo percepire osservando attraverso i due telescopi.

Al telescopio per avere visioni dettagliate è fondamentale ingrandire almeno fino a distinguere particolari di dimensione equivalenti a quelle del disco di Airy.  Nella pratica è conveniente ingrandire anche oltre, finché raggiungiamo una combinazione ideale tra luminosità e contrasto, e questo dipende sia dall’oggetto osservato che dalle condizioni del cielo.

Ricordiamo che, come detto in precedenza, qualunque ostacolo incontrato dalla luce nel cammino attraverso lo strumento produce fenomeni di interferenza.
Nel nostro caso le lamine che sostengono lo specchio secondario nei riflettori provocano i 4 (o più) raggi luminosi che osserviamo intorno alle stelle luminose, lo stesso specchio secondario modifica la distribuzione della luce nel disco di Airy, e qualunque altra cosa che entri nel cammino ottico crea disturbo. Anche viti sporgenti o le graffe che tengono in posizione gli specchi se entrano nel cammino ottico dello strumento. Un telescopio ideale dovrebbe avere il minimo indispensabile di interferenze sul cammino dei raggi luminosi e superfici ben levigate per fornire il massimo della sua risoluzione.
In generale la risoluzione di un telescopio viene valutata per mezzo dalla formula di Dawes, che determina il minimo dettaglio teorico risolvibile espresso in secondi d’arco.

 La formula è
                                                            R= 116/D                                                        (1)

Essendo R la risoluzione in secondi d’arco e D il diametro dell’obbiettivo del telescopio in millimetri.
Si parla sempre di risoluzione angolare in quanto le dimensioni lineari (in centimetri, metri o chilometri) del minimo dettaglio distinguibile su un oggetto dipendono ovviamente dalla sua distanza dall’osservatore.

Possiamo utilizzare questa formula per confrontare la resa di diversi strumenti e troveremo ad esempio i valori riassunti nella tabella I.

TABELLA I

DIAMETRO TELESCOPIO
(mm)

RISOLUZIONE TEORICA
(secondi d’arco)

50

2,3

100

1,2

200

0,6

400

0,3

Dalla comparazione è evidente che la risoluzione migliora in modo direttamente proporzionale al diametro  dell’obbiettivo. La risoluzione angolare può poi essere convertita in risoluzione lineare relativa all’oggetto che ci interessa osservare, ad esempio la Luna.

Figura 3. Risoluzione teorica angolare (secondi d’arco) e lineare (in km) relativamente alla superficie lunare) per telescopi di diverso diametro.
Figura 3. Risoluzione teorica angolare (secondi d’arco) e lineare (in km) relativamente alla superficie lunare) per telescopi di diverso diametro.

Osservando la Luna con un piccolo telescopio da 50 mm di diametro dovremmo risolvere dettagli minimi di circa 4,3 km, con un 120 mm 1,8 km, mentre con un 300 mm si scende sotto il chilometro.
Questo sicuramente è indicativo, ma ricordiamo che molti fattori contribuiscono a metterci i bastoni tra le ruote. Prima di tutto la turbolenza atmosferica, che limita fortemente la risoluzione effettiva di uno strumento. Poi conta anche lo schema ottico, la qualità di lavorazione di specchi e lenti, l’entità dell’ostruzione dovuta allo specchio secondario nei telescopi riflettori.
E anche la collimazione delle ottiche stesse: se non ben fatta peggiora molto l’immagine e limita molto la risoluzione. Anche la qualità degli oculari che utilizziamo in funzione dello strumento è importante, inutile avere un costoso obbiettivo apocromatico o uno specchio di eccellente fattura e usare un oculare di bassa qualità preso da un telescopio giocattolo. Ad esempio 30-40 anni fa i telescopi riflettori più economici erano di tipo newtoniano da 114 mm di diametro e un metro di focale ed erano considerati abbastanza scadenti dal punto di vista ottico, ma in realtà lo erano solo perché venivano forniti con oculari di serie di pessima qualità. Non entreremo qui in troppi dettagli, ma basti sapere che la resa effettiva di un telescopio dipende davvero da molti fattori.
Per quanto riguarda la risoluzione è importante sottolineare anche che la legge di Dawes va presa come indicativa, e che nella realtà la risoluzione dipende anche dal contrasto dei dettagli che andiamo ad osservare e dal rapporto segnale/rumore, una quantità davvero cruciale in astronomia.
Il segnale nel nostro caso è la quantità di luce che arriva al nostro occhio e il rumore la luminosità del fondo cielo sommata a tutte le fondi di disturbo residue (turbolenza atmosferica, aberrazioni del sistema ottico, difetti del telescopio, ecc…). Il limite di Dawes in generale potrà essere vicino al vero per dettagli mediamente ben contrastati, o potrà essere addirittura di molto superato in caso di contrasto particolarmente elevato.
Un esempio classico è la divisone di Cassini negli anelli di Saturno, osservabile anche con piccoli telescopi, nonostante sia teoricamente alla portata di telescopi di almeno 25-30 cm di diametro.  Linee ad alto contrasto vengono infatti risolte ben al di sotto del valore di Dawes e un classico esempio di questo fatto sono i cavi delle linee elettriche, distinguibili facilmente ad occhio nudo anche a grande distanza contro il fondo del cielo, pur essendo teoricamente molto al di sotto del potere risolutivo dell’occhio secondo la legge di Dawes.
Si comprende dunque che definire il potere risolutivo è in realtà una questione davvero molto complessa e che andrebbe valutata in funzione delle caratteristiche ottiche del sistema (che definiscono la distribuzione della luce nel disco di Airy), del contrasto e luminosità dei dettagli osservati, e della loro tipologia (linee o dettagli diffusi), nonché della turbolenza atmosferica.

La tabella II riporta gli ingrandimenti mediamente suggeriti nell’osservazione dei pianeti principali (Marco Falorni e Paolo Tanga, Osservare i Pianeti, Quaderni di l’Astronomia 1994)Figura 3. Risoluzione teorica angolare (secondi d’arco) e lineare (in km) relativamente alla superficie lunare) per telescopi di diverso diametro.

Osservando la Luna con un piccolo telescopio da 50 mm di diametro dovremmo risolvere dettagli minimi di circa 4,3 km, con un 120 mm 1,8 km, mentre con un 300 mm si scende sotto il chilometro.
Questo sicuramente è indicativo, ma ricordiamo che molti fattori contribuiscono a metterci i bastoni tra le ruote.
Prima di tutto la turbolenza atmosferica, che limita fortemente la risoluzione effettiva di uno strumento.
Poi conta anche lo schema ottico, la qualità di lavorazione di specchi e lenti, l’entità dell’ostruzione dovuta allo specchio secondario nei telescopi riflettori.
E anche la collimazione delle ottiche stesse: se non ben fatta peggiora molto l’immagine e limita molto la risoluzione.
Anche la qualità degli oculari che utilizziamo in funzione dello strumento è importante, inutile avere un costoso obbiettivo apocromatico o uno specchio di eccellente fattura e usare un oculare di bassa qualità preso da un telescopio giocattolo. Ad esempio 30-40 anni fa i telescopi riflettori più economici erano di tipo newtoniano da 114 mm di diametro e un metro di focale ed erano considerati abbastanza scadenti dal punto di vista ottico, ma in realtà lo erano solo perché venivano forniti con oculari di serie di pessima qualità. Non entreremo qui in troppi dettagli, ma basti sapere che la resa effettiva di un telescopio dipende davvero da molti fattori.
Per quanto riguarda la risoluzione è importante sottolineare anche che la legge di Dawes va presa come indicativa, e che nella realtà la risoluzione dipende anche dal contrasto dei dettagli che andiamo ad osservare e dal rapporto segnale/rumore, una quantità davvero cruciale in astronomia. Il segnale nel nostro caso è la quantità di luce che arriva al nostro occhio e il rumore la luminosità del fondo cielo sommata a tutte le fondi di disturbo residue (turbolenza atmosferica, aberrazioni del sistema ottico, difetti del telescopio, ecc…). Il limite di Dawes in generale potrà essere vicino al vero per dettagli mediamente ben contrastati, o potrà essere addirittura di molto superato in caso di contrasto particolarmente elevato. Un esempio classico è la divisone di Cassini negli anelli di Saturno, osservabile anche con piccoli telescopi, nonostante sia teoricamente alla portata di telescopi di almeno 25-30 cm di diametro.
Linee ad alto contrasto vengono infatti risolte ben al di sotto del valore di Dawes e un classico esempio di questo fatto sono i cavi delle linee elettriche, distinguibili facilmente ad occhio nudo anche a grande distanza contro il fondo del cielo, pur essendo teoricamente molto al di sotto del potere risolutivo dell’occhio secondo la legge di Dawes.
Si comprende dunque che definire il potere risolutivo è in realtà una questione davvero molto complessa e che andrebbe valutata in funzione delle caratteristiche ottiche del sistema (che definiscono la distribuzione della luce nel disco di Airy), del contrasto e luminosità dei dettagli osservati, e della loro tipologia (linee o dettagli diffusi), nonché della turbolenza atmosferica.

La tabella II riporta gli ingrandimenti mediamente suggeriti nell’osservazione dei pianeti principali (Marco Falorni e Paolo Tanga, Osservare i Pianeti, Quaderni di l’Astronomia 1994)

Tabella II

Diametro dell’obbiettivo

PIANETA

100 mm

150 mm

200 mm

250

300

Venere

150 X

200 X

250 X

300 X

300 X

Marte

250 X

300 X

400 X

450 X

500 X

Giove

150 X

180 X

220 X

280 X

350 X

Saturno

120 X

150 X

200 X

250 X

300 X

Questa tabella illustra nella pratica quanto detto fino ad ora in quanto vediamo che i diversi pianeti, osservati attraverso uno stesso telescopio,  richiedono ingrandimenti differenti per raggiungere le condizioni ottimali.
I dettagli di Marte sono generalmente più contrastati rispetto alle tenui nubi di Saturno o di Giove e questo incide sulla scelta dell'ingrandimento. Naturalmente i valori sono orientativi e potremo riscontrare che il nostro strumento, anche in funzione del nostro occhio, raggiunge la resa ottimale con ingrandimenti leggermente diversi da quelli indicati.

Ma quanto grande ci appare un pianeta osservato attraverso l'oculare di un telescopio? Pensando che il telescopio ingrandendo "avvicina" gli oggetti, istintivamente si immagina di poter vedere un disco di grandi dimensioni apprezzabili, come in una fotografia.  Ma non è proprio cosi'.  Osservando ad esempio a 200 ingrandimenti, il pianeta Giove ci apparira' come un dischetto di soli 15 millimetri osservato da mezzo metro di distanza (circa la lunghezza di un braccio teso).  Il globo di Saturno sarà  circa di 8 millimetri (ma niente paura, gli anelli sono molto piu' grandi!) e Marte poco più di 1 centimetro nelle apparizioni favorevoli. Si puo' restare a volte delusi, ma d'altra parte ci si scontra con una delle più dure realtà dell'astronomia: le distanze tra i corpi celesti sono immense se rapportate alla scala delle dimensioni tipicamente umane. I pianeti per quanto li ingrandiamo rimangono di fatto dei mondi molto lontani da noi. 

Dal punto di vista osservativo non prendiamo la cosa come un ostacolo insormontabile, per secoli gli astronomi hanno studiato il cielo con il solo ausilio dei propri occhi. Oggi siamo abituati alle comodità della tecnologia, mentre mettendo l'occhio al telescopio ritorniamo come gli osservatori di un paio di secoli fa. Bisogna avere un po' di pazienza ed imparare ad usare i nostri occhi in condizioni estreme completamente differenti dalla situazione diurna. Le soddisfazioni e le sorprese non mancheranno. Ma di questo tratteremo in un successivo articolo.


Per concludere, dopo aver brevemente esplorato come si formano le immagini al telescopio e il significato dell’ingrandimento, dovrebbe essere chiaro che il parametro fondamentale di un telescopio è dato dal diametro dell’obbiettivo.
Questo determina sia la quantità di luce raccolta che la capacità di osservare dettagli più o meno fini su di un dato oggetto. La potenza di un telescopio è in primis la dimensione dell’obbiettivo.

Il tipo, rifrattore o riflettore, assieme allo schema ottico, definiscono altre caratteristiche certamente importanti. Ma la scelta di uno strumento sarà alla fine personale e dettata delle nostre preferenze ed esigenze, oltre che dal nostro portafoglio. Un parametro importante può essere spesso anche la valutazione dell’ingombro nel caso si voglia uno strumento facilmente trasportabile o si abbia poco spazio in casa. Il rifrattore ad esempio è teoricamente ideale in quanto privo di ostruzione, ma se l’obbiettivo non è apocromatico potrà esserci sempre un minimo aberrazione cromatica residua. E d’altra parte, oltre un certo diametro, l’ingombro di un rifrattore diviene proibitivo, senza considerare il costo elevato. Da considerare dal lato opposto che un classico ed economico telescopio newtoniano, se adeguatamente progettato e costruito, può avere una resa sostanzialmente equivalente a quella di un assai più costoso costoso rifrattore apocromatico.  

Ciascuno strumento alla fine ha i suoi pregi e i suoi difetti e dovremo quindi valutare molti aspetti nell’effettuare la nostra scelta.

 

 

 

 

 

 

I segreti dell'osservazione visuale

a cura di Giannantonio Milani

1. Il primo sguardo attraverso un telescopio

Quando acquistiamo un telescopio e lo puntiamo per la prima volta verso il cielo siamo carichi di aspettative. Le belle immagini e descrizioni che abbiamo trovato nei libri, nelle riviste e sul web fanno sperare di poterci affacciare in un mondo meraviglioso con il nostro strumento.  Ed è certamente vero, soprattutto al primo sguardo alla Luna con le sue distese di crateri, così diversi dai paesaggi terrestri e così magici e suggestivi: osservando al telescopio sembra proprio di essere in volo sulla superficie lunare con una astronave! Una “magnifica desolazione” come l’aveva descritta Edin E. Aldrin,  pilota del modulo lunare di Apollo 11.
Gli anelli di Saturno rappresentano spesso il secondo spettacolo, una vera meraviglia! Venere ci stupisce mostrandoci le sue fasi come una piccola Luna e Giove con le sue tenue bande di nubi e i suoi satelliti principali che mutano continuamente di posizione.  
Ma ben presto ci scontriamo con alcuni limiti e ostacoli: per quanto li ingrandiamo i pianeti rimangono delle piccole palline sbiadite. Belli i satelliti di Giove, ma il disco del pianeta  mostra appena poche tenui bande poco marcate. Marte, quando l’apparizione è favorevole, mostra solo qualche vaga ombra e le stelle, anche aumentando a dismisura l’ingrandimento, rimangono soltanto dei piccoli puntini tremolanti. Nebulose a galassie sono in gran parte invisibili, tranne qualche evanescente nuvoletta, quasi un fantasma,  priva di ogni colorazione già per gli oggetti più luminosi ed avara di dettagli evidenti. La galassia M 31 e la nebulosa M42 di Orione sono i più evidenti e facili da osservare, ma la maggior parte delle altre tenui nebulose e galassie rimangono come piccole nuvolette sbiadite, assai diverse dalle belle immagini che vediamo pubblicate abitualmente.

Nonostante questo non mancano osservazioni storiche, effettuate visualmente, ricche di fascino e di dettagli.
Sorge spontanea la domanda: dove sono dunque tutte quelle visioni fantastiche riportate sui libri e riviste? E come hanno fatto gli astronomi del passato  a vedere tante cose utilizzando solamente i loro occhi, spesso con piccoli telescopi,  e delle quali troviamo testimonianza su molte fonti antiche e moderne? Wilhelm Tempel, ad esempio, ha scoperto la debole nebulosità vicino a Merope, nell’ammasso delle Pleiadi, osservando da Venezia con il suo modestissimo telescopio. Ma Tempel ci ha lasciato anche disegni estremamente dettagliati dei pianeti, della Luna, e anche di comete e galassie.

 

disegni della Luna - Tempel

Alcuni disegni della Luna, di comete realizzati da Wihlelm Tempel


A volte i disegni degli osservatori del passato appaiono approssimativi, anche per i limiti imposti dai primi telescopi, ma altre volte potremmo dire che sono talmente precisi da sembrare “quasi delle fotografie”!  E dall’epoca di Galileo fino a poco meno di 200 anni fa l’occhio è stato il solo mezzo per esplorare il cielo attraverso il telescopio.  D’accordo, non c’era il problema dell’inquinamento luminoso, ma i telescopi disponibili oggi sono mediamente di qualità molto più elevata e di maggiori dimensioni di quelli disponibili nei secoli passati. E per i pianeti l’inquinamento luminoso non è un ostacolo.  Dov’è dunque nascosto il nocciolo della questione? Gli osservatori del passato erano dei visionari o, per così dire,  avevano una vista a “raggi X”?

 

 

M42 Tempel

La nebulosa M42 in Orione disegnata da Tempel

 

2. Questione di….

La risposta alla domanda posta prima può suonare forse banale, ma è in realtà abbastanza semplice: prima di tutto è questione di addestramento ed allenamento, oltre che di metodo ed esperienza. Secondariamente può dipendere anche dalla qualità dello strumento, ma questo lo vedremo dopo.

Andiamo intanto a vedere il meccanismo che governa la visione: il nostro occhio (e il nostro cervello) è conformato per operare in condizioni diurne, con luce e contrasto elevati, oltre che a dover spaziare su scene ampie e ricche di dettagli.
Nell’osservazione notturna, ed ancor più al telescopio, l’occhio, e il nostro cervello, si trovano a fronteggiare condizioni di luce e contrasto del tutto innaturali e ad osservare in generale oggetti comunque molto piccoli, per quanto li si ingrandisca (ovviamente a parte la Luna).  

Per comprendere meglio la situazione vediamo un po’ più in dettaglio come funziona il nostro occhio.  
La conformazione è simile a quella di una telecamera: c’è  una lente che funge da obbiettivo (il cristallino) e un diaframma che regola la quantità di luce che entra (l’iride).  Il fondo dell’occhio è tappezzato di elementi sensibili alla luce (coni e bastoncelli) ed ha la stessa funzione di un moderno sensore CCD o CMOS, comunemente usati in fotocamere e telecamere digitali. Il nervo ottico porta al cervello i segnali prodotti dagli stimoli visivi analogamente ai cavi e ai circuiti di una telecamera collegata ad un personal computer o ad un monitor.  Infine il nostro cervello opera  come un software analizzando ed elaborando le immagini.
Coni e bastoncelli hanno funzioni differenti. I primi sono sensibili ai colori e agli elevati livelli di luce e permettono di percepire i dettagli. Sono concentrati soprattutto nel centro della retina.
I bastoncelli occupano invece maggiormente le zone periferiche, non vedono i colori e i dettagli ma hanno la capacità di adattarsi ai bassi livelli di luce e di percepire  il movimento.  

L’adattamento al buio non è immediato e richiede un minimo di 5-10 minuti, ma continua ad aumentare sensibilmente nella prima mezz’ora, e più lentamente in seguito per alcune ore. Se dobbiamo dedicarci all’osservazione di oggetti molto deboli, è consigliabile un adattamento di almeno 20-30 minuti.
E’ esperienza comune che passando da un luogo fortemente illuminato ad uno quasi buio (ad esempio in una grotta) occorrono alcuni minuti prima iniziare a distinguere l’ambiente che abbiamo intorno, e più tempo restiamo nel luogo buio meglio vediamo.  Se si viene però abbagliati da una luce troppo intensa  l’adattamento all’oscurità si perde immediatamente e bisogna nuovamente riabituare la vista.

L’adattamento è già un primo fattore importante  per vedere oggetti deboli. Ma c’è dell’altro: osservando al telescopio si è di fronte spesso a condizioni davvero estreme per il nostro occhio. Ad esempio un pianeta luminoso e abbagliante contro lo sfondo del cielo completamente nero.  Un contrasto altissimo tra oggetto e cielo che si scontra con contrasti invece estremamente bassi e dettagli molto tenui sulla superficie del pianeta stesso.
Ma vi è anche un secondo ostacolo. Si è detto prima che i recettori del nostro occhio che percepiscono i dettagli e i colori sono addensati nella zona centrale della retina dell’occhio. Questa zona corrisponde ad una regione ristretta nel centro del nostro campo visivo.
Di questo ci possiamo accorgere comunemente se fissiamo lo sguardo in un punto: noteremo allora che verso le zone periferiche del campo di vista la quantità di dettagli percepibili diminuisce rapidamente.  Per avere una chiara visione dell’ambiente in cui siamo il nostro occhio compie continuamente rapidi spostamenti dei quali non siamo coscienti,  ma che ci permettono di avere una visione nitida in un campo piuttosto ampio.  Questi rapidi movimenti avvengono continuamente nella vita di tutti i giorni.  E l’occhio li compie istintivamente anche osservando al telescopio. Ma questo è un problema quando si deve osservare la minuscola pallina di un pianeta, che rimane piccolo anche a 150-200 o più ingrandimenti.  L’occhio spazia non solo sul disco del pianeta ma anche intorno disperdendo l’attenzione dove non serve.  

La prima cosa da fare osservando al telescopio è proprio di imparare a fissare lo sguardo in un punto forzando l’occhio a stare fermo e a concentrare la nostra attenzione per un certo tempo solo sul piccolo disco planetario. Non è una cosa istintiva e ci vuole un po’ di pazienza per riuscire a farlo bene.

La seconda cosa importante è osservare a lungo. L’occhio (e il nostro cervello) devono abituarsi e familiarizzare con il livello di luce e i deboli contrasti dei pianeti.

Terzo punto: osservare a lungo anche per superare i limiti della turbolenza atmosferica. Salvo notti particolarmente favorevoli, avremo sempre una agitazione più o meno forte dell’immagine dovuta alla turbolenza dell’aria intorno e sopra di noi. Ma ogni tanto la turbolenza diminuisce o addirittura si arresta per alcuni istanti, o per alcuni secondi. In quei momenti si rendono immediatamente evidenti moltissimi particolari prima non osservabili. Il nostro cervello li memorizza e nei momenti successivi nei quali l’immagine è stabile riusciremo a ritrovarli e percepirli con maggior nitidezza, aggiungendo altri nuovi dettagli.
Quarto punto: l’allenamento. Come in tutte le cose occorre non solo aver la perseveranza di apprendere, ma anche di mantenere allenate costantemente le nostre capacità.

E l’osservazione visuale è un tipo di pratica che richiede il suo tempo per progredire. Quando i pianeti venivano osservati prevalentemente con tecniche visuali era esperienza comune notare come all’inizio di ciascuna apparizione del pianeta, e relativa campagna osservativa, si riuscissero a vedere pochi dettagli. Ma ad ogni successiva serata di osservazione si percepiva un certo progresso e dopo un paio di settimane si iniziavano a raggiungere i livelli di prestazione dell’annata precedente. Da considerare che le sessioni osservative di un pianeta erano necessariamente lunghe (generalmente non meno di un paio d’ore) per poter sfruttare la rotazione del pianeta e per vedere una parte più estesa possibile della superficie o della sua atmosfera.  Osservare in questo modo risulta faticoso sia per l’occhio che per le concentrazione necessaria. E difatti non si stava costantemente con l’occhio incollato all’oculare, ma si intervallava con delle pause.
 
L’esecuzione di un disegno aiutava a registrare i dettagli osservati ma anche costringe ad una maggiore attenzione.
Il disegno (o più disegni nel caso di molte ore di osservazione) veniva eseguito in un tempo relativamente lungo, ma la posizione dei  particolari andavano fissati per un dato momento perché pianeti, in particolare Giove e Saturno, ruotano molto velocemente. A distanza di pochi minuti è già percepibile la loro rotazione!  La posizione esatta (longitudine) dei dettagli non veniva però dedotta dai disegni, ma stimando il tempo di transito al meridiano del pianeta (linea immaginaria che lo divide a metà da Nord a Sud).  Un osservatore esperto è in grado di valutare il tempo di transito con una incertezza complessiva di pochi minuti, il che corrisponde ad una precisione in longitudine di pochi gradi.  

Con opportune tabelle il tempo di transito era poi convertito in longitudine nel sistema di coordinate riferito a Giove.

 


Giove

Disegni di Giove realizzati dall’autore nel 1974 con un rifrattore da 8 cm di apertura. L’osservazione protratta per lungo tempo permette di rilevare molti dettagli e di osservare la rotazione del pianeta mappando un ampio intervallo in longitudine sulla superficie del pianeta. Le osservazioni erano condotte dell’ambito dei programmi della Sezione Pianeti dell’UAI, allora coordinata da Giancarlo Favero.

 

Eseguire un disegno può sembrare un tipo di attività ormai superata, ma è una pratica  che costringe ad osservare a fondo un oggetto e permette di notare particolari che altrimenti sfuggirebbero ad una osservazione frettolosa. Non è una cosa facile. E infatti chi si cimenta in un disegno apprezzerà poi ancora di più l’incredibile abilità degli osservatori del passato.  Già disegnare un pianeta è complicato, ma affrontare la Luna diventa un’impresa davvero difficile per l’enorme ricchezza di dettagli. In questo caso è necessario limitare l’attenzione ad una piccolissima area ed eseguirne uno schizzo o un disegno più o meno dettagliato, a seconda delle condizioni della serata e di quello che vogliamo ottenere.  

Il tipo di disegno può variare a seconda delle preferenze e della propria dimestichezza  con questa tecnica.   Generalmente è preferita la matita su foglio bianco, sfumando poi i dettagli, ma sono efficaci anche schizzi al tratto e c’è chi si cimenta talvolta anche con disegni a colori.   L’illuminazione dovrà essere tenue ma sufficiente a vedere bene il foglio ed il disegno per la Luna e i pianeti,  una luce rossa sarà invece più indicata se si tratta di osservazioni cielo profondo.
Molto importante è cercare di avere una posizione di osservazione comoda. E’ ben difficile mantenere a lungo un elevato livello di attenzione se si è costretti a in posizioni da contorsionisti e scomode che, soprattutto con il freddo e l’umidità notturna, potrebbero procurare facilmente qualche spiacevole acciacco muscolare.  Imperativo quindi essere comodi, anche con un adeguato piano di appoggio per effettuare il disegno!  E avere molta pazienza perché ci accorgeremo che effettuare un buon disegno richiede il suo tempo. Utile poi rifinirlo dopo a tavolino per dargli un aspetto più naturale e fedele alla nostra impressione al telescopio, sempre naturalmente tenendo fede a quanto realmente osservato.

Osservando all’oculare con un occhio è istintivo strizzare l’altro per tenerlo chiuso. E’ bene cercare di non farlo, chiudendo sì l’occhio, ma in modo rilassato. E’ poi utile alternare ogni tanto gli occhi per evitare un eccessivo affaticamento, anche se generalmente noteremo che uno dei due occhi ha una vista più acuta dell’altro.
Una soluzione ideale potrebbe essere una torretta binoculare, per osservare con entrambi gli occhi. Ma, a parte il costo, non è sempre semplice adattarla a tutti i tipi di telescopio.


2. Il profondo cielo

Fin qui però abbiamo parlato di oggetti luminosi come i pianeti. Me cosa accade quando osserviamo oggetti deboli, come galassie, nebulose, comete? Le cose qui si complicano ulteriormente in primo luogo perché un requisito importante è disporre di un bel cielo buio e limpido. In secondo luogo perché l’occhio è qui spinto ad un limite ancora più estremo che nell’osservazione dei pianeti.  Occorre un buon adattamento al buio (non meno di 20-30 minuti) evitando poi qualunque abbagliamento da fonti di luce intense.
Si aggiunge poi un problema: in queste condizioni estreme i recettori in gioco sono per lo più i bastoncelli, non sensibili ai colori e sensibili invece al movimento. Ci troviamo di fronte al paradosso che (come per i pianeti) ci imporrebbe di fissare lo sguardo in un punto, ma così facendo, essendo i bastoncelli preposti a rilevare il movimento, dopo un po’ di tempo….non vedono più nulla. Se fissiamo lo sguardo troppo a lungo le stelline più deboli sembreranno infatti scomparire.  Bisogna quindi “stuzzicare” l’occhio spostando ogni tanto di poco lo sguardo (es. ogni 10 - 20 secondi) .  In questo modo si evita anche il problema dovuto alla macula lutea, una piccola zona della nostra retina completamente cieca, corrispondente al punto di attacco del nervo ottico. Se fissiamo lo sguardo e un oggetto cade in quel punto, non lo vediamo.  Nell’osservazione diurna non ce ne accorgiamo proprio perché l’occhio si muove continuamente per cogliere più dettagli possibili e il nostro cervello sorprendentemente elabora le immagini rimuovendo questo ed altri difetti.

Per scoprire la vostra macula lutea però potete fare un semplicissimo esperimento: osservate i due punti neri disegnati nella figura che segue: chiudete un occhio, ad esempio il sinistro, e osservate con l’occhio destro  fissando il punto di sinistra.  Sempre fissando attentamente solo quel punto allontanatevi e avvicinatevi dal foglio (o dal monitor), spostandovi lentamente avanti e indietro (facendo attenzione che i due punti rimangano in orizzontale): vedrete che in corrispondenza di una certa distanza  (indicativamente 30 cm) il puntino di destra, come per magia, scomparirà completamente. Avrete allora localizzato la vostra macula lutea. L’esperimento può naturalmente essere effettuato in modo simmetrico con l’altro occhio.

 

macchia lutea

 

Nell’occhio umano il tempo di integrazione della luce (formazione delle immagini) è intorno a 1/20 di secondo, ma  alcune esperienze nell’osservazione notturna sembrerebbero suggerire che l’occhio riesca ad integrare la luce anche più a lungo, secondo alcuni osservatori  anche fino a qualche secondo di tempo. Ovvero lo stimolo luminoso può aumentare leggermente per un breve tempo se fissiamo un oggetto debole al telescopio. Difficile dire in realtà se sia un reale effetto di integrazione dello stimolo o se sia il nostro cervello che riesce a fissare meglio le immagini osservando per più tempo. Comunque sia un guadagno sembra esserci.

Per osservare deboli nebulose, galassie, ammassi stellari…, oltre al diametro del telescopio e alla qualità del cielo vanno testati vari ingrandimenti. Oggetti diversi, per tipologia, dimensioni apparenti, luminosità, saranno meglio visibili ciascuno con un differente ingrandimento.  Bisogna quindi provare sul campo qual è la combinazione ottimale.
L’oculare preferibilmente dovrà essere di buona qualità, ma non sono necessari tipi particolari. Sono di gran moda oculari con un campo di vista molto ampio, spettacolari se osserviamo ammassi stellari o campi ricchi di stelle. Ma ricordiamo quanto detto sul funzionamento dell’occhio: un campo troppo ampio potrebbe distrarre l’attenzione e far compiere troppi spostamenti all’occhio, e in certi casi questo è particolarmente dannoso.  Se ciò che ci interessa è osservare un oggetto specifico di piccole dimensioni apparenti è sufficiente un normale oculare che ci dia una visione ben nitida, indipendentemente dal campo apparente mostrato.
Ricordiamo poi che le belle nebulose colorate che troviamo in fotografia ci appariranno in bianco e nero. Solo in pochissimi casi, ed osservando soprattutto con strumenti di grande diametro e comunque superiore almeno a 20-25 cm di apertura,  potremo cogliere delle tenui sfumature verdastre, azzurre o più raramente rossastre, su alcuni oggetti, come la nebulosa M42 in Orione. Per sperare di riuscirci però occorre oltre ad un cielo molto terso e buio anche un occhio molto ben allenato e adattato alla visione notturna. Riuscire nell’impresa ci regala una magia aggiuntiva all’osservazione diretta dei corpi celesti.

L’osservazione visuale ci potrà regalare delle soddisfazioni indimenticabili, ma è una cosa che bisogna anche conquistare imparando ad usare e conoscere sia il proprio telescopio ed il proprio occhio, che le tecniche più efficaci.
Per aumentare il fascino dell’osservazione, quando sarete sotto un bel cielo stellato, provate anche a pensare che la luce che ci sta raggiungendo in quel momento è partita molto prima.  Dalla luna circa un secondo prima (poca cosa), ma già dai pianeti si parla di decine di minuti, per le stelle anni o migliaia di anni, e per le flebili nebulosità delle galassie addirittura  miliardi di anni.  Un messaggio che viene davvero da molto lontano sia nel tempo che nello spazio!

Aggiungiamo  alcune note pratiche:  nell’osservazione notturna sono assolutamente da evitare gli alcolici, che peggiorano decisamente la visione in scarse condizioni di luce, preferendo alimenti o bevande calde e zuccherate. Ricordatevi poi che rimanere immobili ad osservare di notte richiede un abbigliamento adeguato e ben superiore a quello che adotteremo normalmente per muoverci nella stessa situazione. In inverno sono consigliabili giacche a vento ben imbottite e  pantaloni imbottiti impermeabili da indossare sopra un abbigliamento invernale, vestendosi comunque “a strati” in modo da poterlo ottimizzare per la situazione.  Calzamaglia, moon-boots, berretti e guanti ben imbottiti e isolanti…aumenteranno la nostra resistenza nelle nottate più fredde.

 

comete

A sinistra la cometa West osservata dall’autore il 25 marzo 1976 da Padova con un rifrattore da 11 cm; a destra la testa della cometa 1996 B2 (Hyakutake) osservata il 25 marzo 1996 con binocolo 20x80 mm da cima Grappa nel momento di massimo avvicinamento alla Terra. La chioma si estendeva per circa 2 gradi, la coda per oltre 40 gradi e la cometa ad occhio nudo appariva l’oggetto dominante sulla volta celeste.  Le colorazioni giallo caldo, della luce riflessa dalle polveri,  e verde, delle emissioni gassose della chioma, erano  evidenti già al binocolo grazie alla elevata luminosità della cometa. Per la vicinaza dell'oggetto anche il lento spostamento tra le stelle poteva essere immediatamente percepito al binocolo.


4. Quanto può vedere l’occhio? E quanto è affidabile?


Una questione che ogni tanto sale alla ribalta è quanto in profondità riesca a vedere l’occhio e nascono insensate competizioni tra visuale e osservazioni digitali per certificare un primato del primo sul secondo.  La cosa si ripropone soprattutto in caso di eventi particolari, alimentato dalla tendenza al mito dell’osservatore “dall’occhio bionico”.  
A volte sono state osservate code di comete di straordinaria lunghezza (ma fisicamente impossibili), a volte oggetti troppo deboli od elusivi…ed osservati  a volte in posizioni errate.  
Purtroppo (o per fortuna) la tecnica fotografica a lunga posa ieri, e oggi ancor più i sensori CCD, pongono seri limiti a queste osservazioni fornendo dati oggettivi.
L’occhio può battere una ripresa CCD a lunga posa? Certamente no. E nonostante ci siano alcuni casi apparentemente positivi, non c’è nessuna prova realmente attendibile che dia conferma.
Un serio osservatore visuale dovrebbe sempre essere cosciente che la suggestione è spesso in agguato.  E un osservatore che nella sua vita non abbia mai preso un abbaglio è piuttosto sospetto.   
Casi storici, come quello dei canali di Marte, o illusioni ottiche (classici trompe l’oile) ad esempio sulle osservazioni lunari, dovrebbero suggerire cautela, ma la memoria è corta, e la voglia di primeggiare comunque, spesso troppa.  
Emblematici anche i casi di osservazioni di minimi di stelle variabili ad eclisse, dove i minimi sono stati osservati anche quando si è poi scoperto che la data ed ora di previsione del minimo era completamente errata. O anche osservatori di comete che non notavano variazioni anomale di luminosità continuando a stimare valori simili a quelli previsti nelle effemeridi e che si accorgevano della variazione con molto ritardo, quando ormai la notizia era circolata.  

C’è chi falla in buona fede, ma non si può escludere che qualcuno abbia giocato anche d’astuzia: se uno finisce con l’essere universalmente accreditato come osservatore dalla vista eccezionalmente acuta (un “superman astronomico” con la vista a raggi X), chi può contraddire visualmente la sua irraggiungibile osservazione ?
Ovviamente i moderni mezzi digitali possono molte volte tagliare la testa al toro, ma la voglia e l’illusione che l’occhio possa sempre vincere continua ad affascinare.   Naturalmente è fisiologicho che ci sia chi ha vista più acuta e chi meno. Al riguardo ricordo con affetto e simpatia Mauro Vittorio Zanotta, l’ultimo scopritore di comete visuale italiano prematuramente scomparso,  un osservatore dalla vista estremamente acuta e molto allenata dalle lunghe nottate di caccia agli astri chiomati. Comete per lui facili di solito per me erano già oggetti che richiedevano un po’ di attenzione.
Tra gli effetti strumentali, oltre alle condizioni del cielo ed alle caratteristiche del telescopio, va considerato l’osservatore, la sua eventuale stanchezza, le sue aspettative e stato d’animo o di salute. Tutto può portare ad alterare il risultato dell’osservazione.

Errare è umano, e nel visuale lo è ancora di più, ma se ci avviciniamo ad un ambito scientifico, come quello dell’astronomia, occorre porsi con un atteggiamento più onesto e obbiettivo possibile. Cosa oggi inattuabile a causa della martellante circolazione di immagini e informazioni sul WEB e dei conseguenti inevitabili condizionamenti e suggestioni, anche inconsci.

La condizione ideale di un osservatore dovrebbe essere paradossalmente di completa ignoranza sull’oggetto da osservare: nessun dato sulla luminosità o sull’aspetto. L’osservatore potrebbe così cercare di riportare fedelmente ciò che vede, senza farsi trasportare dall’immaginazione, suggestione o dalle informazioni ricevute. 

 

Cometa 19/P Borrelly - confronto

Un caso di test visuale effettuato casualmente in condizioni ideali riguarda la cometa periodica 19P/Borrelli, osservata da Cima Ekar nel dicembre 1994 dopo mesi di maltempo e senza avere alcuna informazione sull’aspetto e luminosità della cometa (internet era allora ancora ad un livello primitivo!).  Lo schizzo  (a sinistra - binocolo 20x80) effettuato velocemente dall'autore, pur approssimativo per le scomode condizioni di osservazione dovute al forte vento, riporta una insolita e inattesa anticoda, pienamente confermata un paio di ore dopo dalle immagini fotografiche riprese con il telescopio Schmidt dell’Osservatorio Astrofisico di Asiago (immagine a destra – Giannantonio Milani, Maura Tombelli, assistenza tecnica di Dalle Ave).

 


Senza ombra di dubbio possiamo affermare che l’osservazione visuale (quella D.O.C.) è la cosa più difficile da realizzare in assoluto.  Riprendere oggetti con tecniche digitali è divenuto ormai relativamente semplice, ma osservare visualmente, riportando con fedeltà e completa obbiettività ciò che è stato visto è davvero la cosa più difficile.

Questo ci fa apprezzare ancora di più l’abilità  degli osservatori che si cimentavano in un ambito davvero al limite delle possibilità umane.  Errori e abbagli, anche clamorosi, non sono mancati, ma facevano in qualche modo parte del gioco e del tentativo di spingersi ai limiti estremi e forse anche oltre.   Ma consoliamoci, gli errori (grossolani o madornali) a volte capitano anche oggi nelle moderne osservazioni digitali! Il fattore umano è sempre in agguato!  Ma, a differenza del visuale, nelle immagini fotografiche e digitali c’è fortunatamente sempre possibilità di un successivo controllo e verifica.

Il visuale nonostante tutto anche oggi rimane un vero e proprio sport estremo, fatto arrampicandosi  ad occhio nudo tra le stelle!  Uno sport reso ancora più arduo dalla difficoltà di trovare un bel cielo limpido, non inquinato da luci, foschia e smog.
Ma accessibile anche dai cieli cittadini se ci rivolgiamo agli oggetti più luminosi.  Ed è inoltre un approccio molto personale con il cielo: proprio per il coinvolgimento che comporta spesso lascia un ricordo molto vivo, e, soprattutto in caso di osservazione di oggetti molto particolari e spettacolari, guardando il nostro disegno a distanza di tempo rivivremo le sensazioni provate nel corso di quella notte di osservazione.  
Per certi aspetti il visuale è “fuori moda”.  Con la fotografia digitale si può fare molto di più e con maggiore comodità e facilità. Ma l’emozione che viene dell’osservazione diretta del cielo è unica e impagabile, e solo i nostri occhi ce la possono dare.

Luna


A sinistra la regione di Milichius disegnata da Alice Milani, alla sua prima esperienza di osservazioni e disegno lunare. A destra la Rupes Recta disegnata dall’autore. Osservazioni con un telescopio newtoniano da 20 cm di apertura.


Giannantonio Milani

Settembre 2014

La turbolenza atmosferica

a cura di Giannantonio Milani

 

Scintilla, scintilla, piccola stella….

Twinkle, twinkle, little star,
 how I wonder what you are.
 Up above the world so high,
 like a diamond in the sky.
When the blazing sun is gone,
 when he nothing shines upon,
 then you show your little light,
 twinkle, twinkle, all the night.
……
(traduzione)
Scintilla, scintilla, piccola stella,
Come vorrei sapere cosa tu sei.
Lassù così in alto,
come un diamante nel cielo.

Quando il sole infuocato se n’è andato,
quando non risplende più su nulla,
allora tu mostri la tua piccola luce,
scintilla, scintilla, tutta la notte.
……

Con questi versi inizia la celebre poesia “The Star” (La Stella) composta da  Jane Taylor  nel 1806 e tratta da The Nursery Rhymes.  Una semplice e bella poesia che si ispira allo scintillio delle stelle, un fenomeno che contribuisce a rendere più poetica e misteriosa la contemplazione del cielo stellato in una notte limpida. Per chi ne ha memoria i primi versi  introducevano il bel programma televisivo RAI sull’astronomia, “In viaggio tra le stelle”, condotto da Mino Damato nel 1973.
Lo scintillio è una caratteristica che rende più affascinante la volta celeste alla visione ad occhio nudo, ma è ben poco gradito dagli astrofili più esperti che si accingono ad effettuare osservazioni al telescopio.  Contrariamente a quanto immaginano gli osservatori occasionali del cielo, non si tratta di un fenomeno fisico legato alle stelle, ma piuttosto di un effetto dovuto all’atmosfera che ci circonda. Atmosfera che per noi è vitale ma che ci ostacola nell’osservazione dello spazio esterno.
In generale si è propensi a prestare molta attenzione alle caratteristiche e bontà ottica quando ci apprestiamo ad acquistare un telescopio, creandoci delle giuste aspettative su ciò che potremo osservare: ad esempio sui crateri più piccoli che potremo distinguere sulla superficie lunare o sui dettagli che potremo cogliere sui pianeti. Tuttavia, per quanto perfetto sia il nostro telescopio, nelle osservazioni sul campo ci scontreremo con i disturbi introdotti dalla nostra atmosfera, spesso decine di volte peggiori dei difetti di lavorazione di un qualsiasi telescopio di media qualità.  Il temolio o ribollimento dell’immagine, più o meno marcato, che notiamo già nelle nostre prime osservazioni della Luna ad elevati ingrandimenti, è dovuto proprio al degrado introdotto dall’agitazione dell’aria.  Non potendo trasferirci con il nostro telescopio al di fuori dell’atmosfera o sulla Luna, dovremo imparare a convivere con questi effetti e a cercare di porci nelle condizioni migliori per limitarli.
L’aria che ci circonda è una delle componenti che contribuisce a generare i cosiddetti “effetti strumentali”, ovvero tutte quelle alterazioni che modificano la qualità della nostra osservazione dei corpi celesti correlate alla situazione nella quale operiamo. Tratteremo qui solo della turbolenza, ma vi sono molti altri effetti dei quali è necessario tenere conto, come rifrazione ed estinzione, soprattutto per osservazioni di tipo scientifico.  
Di fatto la nostra atmosfera è parte integrante del nostro strumento. L’aria, come tutti i mezzi che possono essere attraversati dalla luce, ha un proprio indice di rifrazione, devia cioè il cammino dei raggi luminosi. L’entità della deviazione dipende dalla massa d’aria, dall’angolo di incidenza, dalla lunghezza d’onda (colore) della luce, ma anche dalla pressione e temperatura dell’aria stessa. Masse d’aria in movimento a differente temperatura, che hanno quindi diverso indice di rifrazione, provocano continue modificazioni al percorso dei raggi luminosi, causando lo scintillio delle stelle che percepiamo ad occhio nudo in molte notti.
Se potessimo osservare le stelle al di fuori dell’atmosfera potremmo constatare che di fatto esse non scintillano affatto. Ma anche nelle nostre osservazioni notturne possiamo notare che non sempre le stelle scintillano allo stesso modo (a volte non lo fanno per niente), e che lo scintillio stesso varia di sera in sera, o anche con il passare delle ore, oltre che in funzione dell’altezza sull’orizzonte.
In generale se le stelle scintillano visibilmente è sintomo di atmosfera molto turbolenta e di una situazione non ottimale per l’osservazione. Se invece la loro luce è ferma in generale è indice di aria calma e di un’ottima serata per le osservazioni.  Inglesi e americani hanno coniato il termine “seeing” per indicare la qualità delle immagini al telescopio in relazione all’agitazione dell’atmosfera ed è divenuto di uso abbastanza comune. In lingua italiana si usa definire turbolenza e trasparenza del cielo. Per valutare la turbolenza si adotta una scala empirica stimando la nitidezza delle immagini ad elevati ingrandimenti sia stellari che planetarie.  Ad esempio la scala adottata da Pickering definisce il gado 10 come ottimale, con immagini perfettamente ferme e nitide, il grado zero quando l’immagine è pessima. Antoniadi invece definisce la condizione ottimale con il grado zero e il peggiore con il grado 5. Altre scale analoghe definite da altri autori/osservatori sono state usate comunemente dagli astrofili.  Ad esempio la scala in figura 1 è inversa rispetto a quella di Antoniadi e mostra l’immagine di una stella osservata ad elevati ingrandimenti con un tipico telescopio di piccole dimensioni ( 20 cm) (tratto da Jean Texereau, La construction du tèlescope d’amateur, II ed.)
Come si può capire si tratta di scale qualitative, dove ha un peso sia la valutazione personale sia lo strumento utilizzato. In ambito professionale il “seeing” viene studiato con metodi quantitativi molto più elaborati e precisi, ad esempio misurando di quanto e in che modo vengono deformate le immagini e con quale velocità (frequenza di oscillazione). La trasparenza viene invece misurata come estinzione atmosferica in magnitudini e in funzione dell’elevazione al di sopra dell’orizzonte (o della distanza zenitale).

Figura 1. Diverso grado di turbolenza
Figura 1. Diverso grado di turbolenza valutato osservando l’aspetto di una stella ad elevati ingrandimenti con un piccolo telescopio ( J. Texereau).

Abbiamo già accennato al fatto che il problema della turbolenza è causato dalla diversa temperatura dell’aria e dalla sua agitazione. Nell’atmosfera la normale circolazione su larga scala induce correnti a diverse quote, con zone di inversione termica. Ovvero mediamente la temperatura diminuisce con l’altezza sul livello del mare, ma questo non avviene in modo lineare e vi sono zone nelle quali per un certo tratto si possono avere inversioni di temperatura. Sono ad esempio gli strati dove il vapore d’acqua si condensa formando nuvole, o dove si formano strati di nebbia. Ma strati di inversione si hanno anche con cielo sereno.
In generale, in presenza di condizioni meteorologiche perturbate o instabili, avremo sempre una turbolenza più o meno marcata a diverse altezze, ed un conseguente deterioramento delle immagini. Il vento, pur non essendo responsabile in prima persona della turbolenza (ricordiamo che sono le differenze di temperatura a provocarla!) contribuisce alla formazione di regioni instabili, anche per l’interazione con gli ostacoli che incontra a bassa quota, siano essi edifici, colline o montagne.
La situazione ideale si ha sempre in concomitanza di periodi di alta pressione che portano cielo sereno e assenza di vento, ma anche foschie o nebbie, queste ultime più frequenti nelle stagioni fredde.

Il principale motivo che porta a realizzare gli Osservatori astronomici in siti isolati ad alta quota è proprio dettato dal fatto di portarsi al di sopra dei primi strati più turbolenti dell’atmosfera e di poter avere una trasparenza dell’aria migliore possibile per poter raccogliere anche la luce degli oggetti più deboli. A 5000 metri di quota circa metà dell’atmosfera è già sotto di noi e ad esempio gli osservatori realizzati sui vulcani inattivi delle isole Hawaii, ad oltre 4000 m sul livello del mare, godono di condizioni privilegiate. Alle Canarie, e sui deserti altipiani del Chile, la quota è minore, ma ugualmente godono di situazioni locali particolarmente favorevoli, con ottima trasparenza, clima molto secco e grande stabilità dell’aria.  Un altro Osservatorio celebre per le osservazioni ad alta risoluzione dei pianeti e del Sole è il Pic Du Midì sui Pirenei. Le dimensioni medie apparenti di una stella nelle immagini riprese da questi siti è spesso inferiore ad 1 secondo d’arco,  raggiungendo anche 0,5 secondi d’arco o meno nelle nottate migliori.  In media il seeing da siti mediocri o urbani è intorno a 3 secondi d’arco, o anche più.

Dovremo quindi rassegnarci a dover salire su alte montagne per portarci sopra gli strati più turbolenti di atmosfera e trovare un cielo che ci permetta di sfruttare a fondo il nostro strumento?  Non necessariamente. Sorprendentemente potremo avere condizioni particolarmente buone in siti inattesi, anche dietro l’angolo, come pure condizioni pessime ad alta quota. Perché ?
Perché abbiamo in realtà analizzato solo una parte del problema. Se è vero che su larga scala, a varie quote, l’atmosfera degrada più o meno le immagini, è anche vero che le caratteristiche del microclima e turbolenza locali possono avere un peso per nulla trascurabile.
Gli Osservatori citati prima (Hawaii, Canarie, Chile…) sono stati costruiti dopo aver condotto ricerche estremamente accurate in loco. Anche il punto esatto ove piazzare lo strumento è spesso scelto con molta cura perché anche in un buon sito di alta quota non tutti i punti sono uguali. Anche qui la turbolenza locale può variare da zona a zona. Oggi viene prestata molta attenzione anche alla costruzione degli edifici e delle cupole, che in molti osservatori di vecchia concezione sono risultati essere la causa principale della turbolenza locale e di una cattiva resa dello strumento.
In generale, in buone condizioni,  il rimescolamento dell’atmosfera alle alte quote forma delle celle di aria che possiamo definire sufficientemente uniformi per temperatura e pressione e che hanno una dimensione inferiore al mezzo metro. Questo significa che con telescopi di diametro minore rispetto alla dimensione di queste celle potremo avere un visione generalmente nitida, pur notando un continuo spostamento (oscillazione) dell’immagine di una stella o di un pianeta. Osservando la Luna potremo vedere una deformazione su larga scala, ma non una effettiva perdita sui piccoli dettagli.
Per questo motivo telescopi di piccola apertura (fino a 8-10 cm di diametro) risentono molto meno della turbolenza atmosferica rispetto ad aperture maggiori. Il guadagno sui dettagli osservabili è marcato fino a 20-30 cm di apertura, ma oltre non è scontato avere sempre un incremento. Anzi non di rado una apertura molto maggiore appare deludente sotto questo punto di vista .
Quel che accade è che avremo una visione nitida finché il diametro del nostro telescopio è inferiore alla dimensione media delle celle di turbolenza atmosferica. Oltre avremo un affetto di “intorbidimento” delle immagini, una sorta di sfuocatura.  In generale possiamo dire che un piccolo telescopio (ad es. 5-6 cm di diametro) sarà in grado quasi sempre di rendere con prestazioni prossime al suo limite massimo. Un 8-10 cm ancora regge molto bene, ma inizierà a risentire di un peggioramento nelle serate meno buone. Un 15-20 cm potrà essere sfruttato al massimo ancora per un buon numero di serate, ma un 30-40 cm inizierà ad avere spesso parecchie difficoltà ad essere ben utilizzato. Soprattutto se ci troviamo in un sito dove la turbolenza locale ha un peso rilevante. Normalmente la turbolenza peggiore si origina entro poche centinaia di metri dall’osservatore e prestando attenzione alla scelta del nostro sito potremo notare differenze enormi.

Figura 2. Schema delle deformazioni
Figura 2. Schema delle deformazioni subite da un fronte d’onda mentre attraversa l’atmosfera. Un telescopio di piccola apertura risente della turbolenza su piccola scala e vedremo l’immagine di una stella in rapida “oscillazione”. Un grande telescopio abbraccia anche deviazioni su larga scala e forma immagini stellari caotiche (multiple). (figura adattata da www.telescope-optics.net).

Le  città ad esempio hanno il problema di essere delle “isole di calore”, ovvero zone caratterizzate da un microclima con una temperatura di qualche grado più elevata della zone circostanti.
L’eccesso di calore deriva da molti fattori: il riscaldamento delle case, aziende e uffici in inverno. Asfalto, cemento, muratura… accumulano il calore solare e lo rilasciano di notte. come pure gli impianti di condizionamento in estate producono ulteriore calore.  Inoltre il traffico e l’utilizzo di qualunque motore o macchinario elettrico/elettronico/meccanico, come pure la semplice presenza umana, produce calore.
L’effetto di un’isola di calore è di generare una larga colonna d’aria ascendente richiamando contemporaneamente aria più fresca dalla periferia, formando così una vasta zona di turbolenza. Le cose peggiorano in caso di vento perché questo viene frenato al livello del suolo riacquistando la sua massima velocità solo a quote di almeno 500 metri (in caso di suolo privo di ostacoli la quota è comunque intorno a 200-300 metri). Ma le masse d’aria in rimescolamento sui centri urbani hanno una differenza di temperatura maggiore rispetto alle zone rurali. Localmente poi la complessità del terreno legata alla presenza degli edifici peggiora ulteriormente le cose. Ciò non toglie che occasionalmente si possano avere buone serate anche in città.
Un sito sul pendio di una collina o di una montagna non è sempre ideale in quanto l’aria più calda che risale della valle, o dalla pianura sottostante, tende a formare correnti convettive ascendenti  lungo il pendio creando turbolenza.
In un sito di campagna l’essere circondati da vegetazione è un fatto molto positivo in quanto piante ed erba con foglie verdi riflettono la radiazione infrarossa solare ed evitano un eccessivo riscaldamento del suolo durante il giorno. Ne consegue che dopo il tramonto la temperatura dell’aria tenderà a stabilizzarsi e uniformarsi più rapidamente. Anche in città avere un giardino con un po’ di verde può aiutare un po’ in questo senso. Ottime riprese di pianeti sono state effettuate anche da siti di pianura in periodi dominati da alta pressione.
Distese di acqua (laghi, lagune, mare aperto) possono avere l’effetto di aiutare a termostatare e uniformare la temperatura dell’aria. La neve invece crea instabilità al livello del suolo e peggiora di molto il seeing locale.
Paradossalmente la nebbia, se non troppo fitta, può garantire un buon seeing, sia perché se c’è nebbia abbiamo in generale una situazione di alta pressione, e quindi atmosfera calma negli alti strati, sia perché anch’essa ha un effetto di uniformare la temperatura nello strato vicino a noi. Per contro l’umidità tenderà ad appannare rapidamente le ottiche oltre e penetrare nei nostri indumenti rendendo davvero poco confortevoli le osservazioni!
La cima di una montagna è teoricamente il sito ideale, ma il buon seeing non è automaticamente garantito perché dipende molto dall’orografia circostante e dalla turbolenza locale che potrebbe regalarci bruttissime sorprese. Una cima isolata e circondata da territorio omogeneo dovrebbe essere la più indicata.  Ma le prove sul campo sono le uniche che ci potranno dare una indicazione certa.

Per ultima è da considerare anche la turbolenza che si genera all’interno del telescopio, che può essere ben peggiore di quella intorno a noi. Se teniamo il telescopio in casa è bene portarlo all’esterno molto prima di utilizzarlo per consentire alle sue parti di entrare in equilibrio con la temperatura esterna. In caso contrario si produrranno turbolenze interne davvero disastrose. Il tempo necessario a raggiungere l’equilibrio termico dipende dalle dimensioni e dal tipo di telescopio. Per un piccolo newtoniano (telescopio a specchio a tubo aperto) può essere sufficiente mezz’ora, per uno Schmidt-Cassegrain o Maksutov (a tubo chiuso) potrebbe occorrere molto di più (2-3 ore o più se di grande diametro).  In molti strumenti vengono a volte montate delle piccole ventole per fare circolare l’aria all’interno e velocizzare il processo. Piccoli rifrattori non hanno invece alcun problema di acclimatamento.
In generale spessi tubi metallici impiegano moltissimo a raggiungere un equilibrio termico (e a volte non lo raggiungono mai!), da preferire lamiera sottile (max 1 mm) o tubi in plastica o legno (generalmente costruiti a seziona quadra). Plastica e legno, essendo materiali isolanti, hanno molti meno problemi rispetto ai tubi metallici ed anzi isolano efficacemente le ottiche da piccole variazioni esterne locali. Il metallo, essendo conduttore, può creare problemi, soprattutto nei telescopi più grandi se non ben progettati.
Anche gli specchi, se di grandi dimensioni, richiedono un certo tempo per acclimatarsi generando, oltre a tensioni temporanee nel vetro, anche fastidiose correnti convettive vicine alla loro superficie.
Anche la struttura di un Osservatorio, come già detto, può essere fonte di problemi. La classica cupola, utilizzata da sempre, è in realtà una pessima soluzione per quanto riguarda la turbolenza locale interna e il raggiungimento di un equilibrio con l’esterno. Se costruita sopra un edificio riscaldato l’effetto sarà ancor più accentuato.
Per uno strumento di piccole o medie dimensioni, potendo scegliere, è preferibile una struttura a tetto apribile che garantisce una migliore circolazione dell’aria ed è tra l’altro molto più economica.
Le cupole dei grandi osservatori professionali sono oggi realizzate con un sistema di pareti apribili e regolabili in modo automatico per garantire una temperatura interna sempre in equilibrio con quella esterna, e di giorno la temperatura viene controllata da un sistema di condizionamento programmato sulla temperatura media prevista per la notte. In questo modo, appena termina il crepuscolo, anche un grande telescopio è subito pronto per essere operativo al 100% senza dover attendere ore, se non tutta la notte, per raggiungere un possibile equilibrio termico.

Infine una considerazione anche sulla qualità dello strumento. La lavorazione delle superfici ottiche, e la loro collimazione, ha un peso non marginale sulla sensibilità alla turbolenza. Con un cielo “perfetto”, senza turbolenza, tutti gli strumenti rendono al loro massimo, e potremo notare ben poca  differenza nella resa di telescopi di diversa qualità. Ma in presenza di condizioni non ottimali i telescopi di minore qualità ottica mostreranno un deterioramento sensibilmente maggiore nelle immagini.  Ugualmente telescopi, anche di buona qualità, ma con un forte ostruzione dovuta allo specchio secondario, risulteranno maggiormente penalizzati rispetto ad altri poco ostruiti.
Una ostruzione massima di 1/6 del diametro dello specchio principale in generale è la massima consigliata per avere una buona resa.

Per concludere tracciamo un piccolo vademecum (indicativo) su come decidere se portare fuori il telescopio oppure no:
in una improvvisa schiarita dopo un forte temporale potremo avere un’ottima trasparenza del cielo che invita all’osservazione, ma un’aria molto agitata con forte turbolenza e stelle che scintillano molto. Potremo osservare oggetti deboli a bassi ingrandimenti ma ben poco potrà essere fatto sui pianeti.
Lo stesso avviene in giornate molto ventose, ad esempio nelle nostre zone quando soffia vento di Bora, il cielo è molto limpido ma la turbolenza altissima e lo scintillio molto forte.
Se anche i pianeti osservati ad occhio nudo scintillano, caso fortunatamente raro, significa che la turbolenza è a livelli altissimi. Inutile in questo caso portare fuori il telescopio!
Importante è valutare anche lo scintillio a diverse  altezze sull’orizzonte. Se le stelle scintillano molto all’orizzonte ma poco o nulla allo Zenit significa che la turbolenza è principalmente locale, e probabilmente le condizioni miglioreranno con il passare delle ore.  Anche la velocità dello scintillio può essere indicativa, se rapido indica forti correnti in quota, se lento è probabilmente più un disturbo locale che potrebbe attenuarsi nella notte.
Se le stelle scintillano poco o nulla all’orizzonte e sono ferme allo Zenit ci aspetta un’ottima serata.
Nuvole sottili e velature che si muovono lentamente non sempre sono sinonimo di forte turbolenza. Soprattutto se l’aria al suolo è calma. Si possono a avere talvolta condizioni discretamente buone anche con lievi velature. Se però sono cirri che annunciano l’arrivo di una perturbazione la situazione sicuramente non è favorevole.
Se osserviamo da un poggiolo o terrazzo fare attenzione a chiudere bene porte e finestre senza lasciare spifferi che possono creare micidiali correnti d’aria locali.
Analogamente troppe persone intorno ad un telescopio possono generare calore e turbolenza. Anche lo stesso osservatore può creare disturbo se la brezza porta il suo calore e il suo respiro verso l’imboccatura del tubo.

VADEMECUM: Calcolo della latitudine di un luogo usando il Sole

Breve guida pratica per divertirsi a calcolare, usando semplici strumenti, la latitudine del proprio luogo utilizzando il Sole come riferimento.

AllegatoDimensione
Vademecum Calcolo Latitudine con il Sole.pdf5.1 MB

IL BINOCOLO NELL’OSSERVAZIONE ASTRONOMICA: CARATTERISTICHE E SCELTA

Giannantonio Milani

1.introduzione


Nel corredo di un appassionato di astronomia generalmente accanto al telescopio non manca mai un binocolo, fedele compagno di molte nottate ad osservare il cielo.



                                                                                                                                                                      DA: WWW.SPACE.COM
Figura 1

I pregi dei binocoli sono molteplici, tra i quali:


-    Permettono di avere una visione panoramica su oggetti celesti estesi come, ammassi stellari, nebulose, le galassie più vicine, comete, la Via Lattea, di aiuto anche per orientarci con le mappe e a localizzare nel cielo oggetti che stiamo puntando con il telescopio.
-    La visione con entrambi gli occhi è più confortevole e stanca meno la vista, oltre a dare un sensibile guadagno rispetto alla visione con un occhio solo.
-    I binocoli più piccoli sono leggeri e poco ingombranti ed il costo è contenuto.
-    Sono versatili e possono essere utilizzati sia per osservazioni diurne paesaggistiche e naturalistiche che astronomiche notturne.
Ma di binocoli sul mercato ne esistono oggi di moltissimi tipi ed il prezzo varia da qualche decina di euro a migliaia.

Come fare per orientarsi e scegliere?


Iniziamo a conoscere le caratteristiche principali e poi vediamo alcune regole pratiche che ci possono guidare nella scelta.

2.Tipo di binocoli


Il binocolo non è altro che l’equivalente di una coppia di cannocchiali affiancati e regolabili in modo da poterli adattare alla diversa distanza degli occhi di ciascun individuo. All’interno sono dotati di un sistema di prismi che hanno lo scopo di raddrizzare l’immagine, che altrimenti apparirebbe capovolta come in un cannocchiale semplice. I prismi inoltre deviano il fascio di raggi luminosi riflettendoli più volte al loro interno e così facendo permettono di avere una lunghezza dello strumento più contenuta, quindi molto utili anche per  rendere il binocolo più maneggevole e poco ingombrante, trasportabile ovunque senza fatica.


Essenzialmente in commercio troviamo due tipi di binocoli: Con prismi di Porro e con prismi a tetto.
 


Figura 2


Il primo è più largo e la maggiore distanza tra i due obbiettivi consente di avere una migliore percezione prospettica ed una visione più tridimensionale nell’osservazione terrestre. Il secondo ha corpi più rettilinei ed è meno ingombrante nel senso della larghezza. Questi sono i più comuni, esistono altre possibili varianti nello schema ottico.

3. I dati tecnici


 
Figura 3

 
Sul corpo del binocolo sono sempre riportati dei numeri che ci indicano le caratteristiche tecniche dello strumento, ad esempio: 10X50


Leggerlo è facile:


10X indica l’ingrandimento, quindi quanto il binocolo “avvicina” gli oggetti; 50 è il diametro delle lenti dell’obbiettivo espresse in millimetri.


Quindi 10X50 significa quindi 10 ingrandimenti ed obbiettivi da 50 mm di diametro.
Il diametro dell’obbiettivo indica quanta luce viene raccolta ed è un parametro molto importante in astronomia, lo è meno per osservazioni diurne terrestri.
A volte si può trovare indicato il campo inquadrato, che nel nostro caso corrisponde all’area di cielo coperta dal campo del binocolo espressa come misura angolare in gradi. A volte viene indicata la distanza lineare (diametro del campo inquadrato) per una distanza di riferimento di 1.000 metri.
Può essere indicato, come in figura 3, il tipo di trattamento antiriflesso delle lenti e il vetro utilizzato per i prismi.


Che cosa cambia utilizzando binocoli con differenti ingrandimenti?  Per avere un’idea la figura 4 ci mostra il campo inquadrato con 10 e 20 ingrandimenti sul campo dell’ammasso aperto delle Pleiadi (M45).  La figura è indicativa in quanto binocoli di diversa qualità potranno avere oculari che, a parità di ingrandimento, inquadrano un campo più o meno ampio.


 
Figura 4

4.come e che cosa intendiamo osservare?


Premettiamo che per osservazioni astronomiche qualunque strumento rende al meglio solo se montato stabilmente su di un treppiede, ma binocoli di piccola taglia possono essere utilizzati anche a mano libera con una perdita di resa non troppo elevata.  Al 100% arriveremo comunque solo con un solido treppiede.
Il limite per poter avere una immagine ancora sufficientemente nitida e stabile a mano libera è intorno a 7-8 ingrandimenti. Oltre questo limite l’inevitabile tremolio delle braccia e delle mani inizia a penalizzare sempre più la qualità della visione.
Esistono anche binocoli dotati all’interno di uno stabilizzatore di immagine che permette di utilizzare ingrandimenti maggiori senza perdita di qualità e annullando il tremolio; il costo di questi binocoli ovviamente è assai più elevato rispetto ad un binocolo tradizionale. E’ quindi da valutare se una spesa di questo tipo sia giustificata da un ampio utilizzo. Altrimenti fissare il binocolo su un treppiede è una soluzione alternativa assai più economica. 

Un treppiede è in ogni caso consigliato dai 10 ingrandimenti in su, ma migliora comunque la visione anche ad ingrandimenti più bassi.


5. il vantaggio della visione binoculare


Guardare con due occhi è non solo confortevole e rilassante, ma anche efficace in termini di guadagno. Vedremo cioè un po' di più con un binocolo che non con un semplice cannocchiale di pari diametro ed ingrandimento.


Quale sarà la stella più debole che riusciremo a vedere con un dato binocolo?

La scala di luminosità utilizzata per misurare le stelle è la “magnitudine” (o grandezza), una scala ideata oltre 2000 anni fa da Ipparco e che definisce le stelle più luminose  osservabili ad occhio nudo in una notte limpida di prima grandezza e di sesta quelle al limite della visibilità. Usualmente, anziché "grandezza", in astronomia si usa correntemente il termine "magnitudine" (dal latino magnitudo, che significa appunto grandezza).

La scala non è immediatamente intuitiva essendo inversa: maggiore è il numero più debole è la stella, e gli oggetti più luminosi del cielo, come Giove, Venere, la Luna, a volta anche Marte, vengono ad avere addirittura valori negativi, con il massimo raggiunto dal Sole che ha magnitudine -26,7. A complicare le cose c'è anche il fatto che la scala non è lineare, ma logaritmica, così una differenza di 5 magnitudini corrisponde ad una differenza di luminosità di 100 volte. Ma tutto questo ci interessa relativamente in questo contesto, ci basta avere un'idea di cosa si tratta.


Prendendo come riferimento una bella serata, cielo discreto, con una magnitudine limite ad occhio nudo pari a 5,5. Con diversi binocoli allora potremo riuscire a vedere stelle indicativamente di:

                                                 magnitudine    binocolo
                                                              9,8    8X42
                                                            10,0    10X50
                                                            10,7    15X70
                                                            11,2    20X80
                                                            11,6    25X100

La tabella è indicativa, in alta montagna potremmo superare questi limiti anche di una magnitudine, e all’opposto con cieli foschi e inquinati vedremo molto al di sotto.
Con un binocolo da 60-70 mm di apertura potremo già vedere stelle 100 volte più deboli rispetto all’occhio nudo! L’incremento dato anche da strumenti modesti è davvero notevole.


6. La pupilla di uscita


Un fattore molto importante, legato alle caratteristiche tecniche dei binocoli, è la pupilla di uscita degli oculari, che altro non è che il diametro del fascio luminoso che arriva alla pupilla del nostro occhio. Importante è che le dimensioni del fascio della pupilla di uscita dell’oculare sia inferiore al diametro della pupilla del nostro occhio, in caso contrario parte della luce raccolta dal binocolo andrà persa, non se ne sfrutteranno quindi in pieno le potenzialità. Sarebbe come utilizzare un binocolo di dimensioni inferiori.


La pupilla di un osservatore giovane, ben adattata all’oscurità, si dilata anche fino a 7 mm, ma con l’età, o in anche situazioni di crepuscolo o cielo con forte inquinamento luminoso, la nostra pupilla si allargherà ad un diametro inferiore. In generale una pupilla di uscita di 4-5 mm è considerata ottimale per tutti.  Il valore della pupilla di uscita è semplicemente il diametro dell’obbiettivo diviso per gli ingrandimenti. Un 10X50 avrà quindi una pupilla di uscita di 5 mm, un 20X80 una pupilla di 4 mm.  
 

 

Figura 5

E’ da tenere conto anche che una pupilla di uscita di 6-7 mm ci mostrerà un fondo cielo più luminoso e quindi un minor contrasto tra stelle e cielo; se la pupilla del nostro occhio raggiunge davvero quel valore permetterà di sfruttare bene il binocolo solo con cieli molto scuri e limpidi, senza chiaro di Luna.
Diminuendo la pupilla di uscita, e quindi aumentando gli ingrandimenti, aumenta il contrasto con il fondo cielo e generalmente migliora la percezione degli oggetti più deboli.  Quindi anche la magnitudine limite dipende entro certi limiti dall’ingrandimento. Per contro l’aumento degli ingrandimenti riduce il campo inquadrato.  Esistono anche binocoli con oculari zoom che permettono di variare l’ingrandimento entro un certo intervallo, ovviamente più costosi rispetto ad un ingrandimento fisso.


7.I problemi dei binocoli

 
Come possiamo intuire i pregi dei binocoli sono molti. Ma quali sono i difetti? Per quanto riguarda l’osservazione del cielo ve ne è soprattutto uno: la scomodità di osservare oggetti che non siano prossimi all’orizzonte.  

A mano libera o anche con cavalletto risulta infatti difficile e scomodo osservare sulla verticale verso lo zenit, la parte di cielo migliore per osservare le stelle in quanto la luce che ci arriva attraversa l’atmosfera perpendicolarmente e subisce un minore assorbimento. Verso l’orizzonte l’atmosfera è attraversata obliquamente e vi è un maggiore assorbimento della luce oltre a un maggiore disturbo di foschie, smog e inquinamento luminoso; le stelle appariranno più fioche ed il fondo cielo più luminoso.

   
Dedicarsi all’astronomia d’altra parte comporta guardare verso l’alto e tutti gli astrofili si sono trovati a cimentarsi in contorsioni più o meno ardite con diversi strumenti ricavando a volte torcicolli, mal di schiena e altri acciacchi poco piacevoli.


Il problema maggiore di guardare verso l’alto con il binocolo è lo sforzo che va ad incidere sulle cervicali, a volte protratto per lungo tempo durante le osservazioni notturne, al freddo e all’umido. Una posizione innaturale e forzata per il nostro corpo. Chiaramente non è salutare.  Vi sono per fortuna rimedi (costosi e non). Il sistema più semplice consiste nell’adattare una sedia a sdraio regolabile munendola di un supporto per binocolo, oppure affiancandola con un treppiede a contrappeso che consenta di portare il binocolo in una posizione comoda. Se aggiungiamo una coperta per riparare il corpo dall’umidità otteniamo un sistema di osservazione comodo e funzionale.  L’aggravante è il dover portare con sé la sedia a sdraio e eventuali treppiedi aggiuntivi, ma se ci si sposta in auto non è un gran problema.
 
         

   (S&T Dennis Di Cicco)   

                                                      Fig 6  
                                                                                         
In alternativa anche un semplice materassino ed un treppiede regolabile simile a quelli della figura  6 permettono una osservazione agevole soprattutto allo zenit.
Accessori di questo tipo sono reperibili in commercio ma possono anche essere realizzati in proprio se si ha un po’ di capacità di auto-costruttore. Molti astrofili vi si sono cimentati con successo con realizzazioni in alluminio o legno.


Altra soluzione, costosa, è di acquistare un binocolo specificamente dedicato all’astronomia e con i prismi configurati in modo da avere gli oculari inclinati ( di 45 o 90 gradi) rispetto all’asse ottico dello strumento, permettendo una visione comoda anche guardando verso l’alto. Questa soluzione è adottata soprattutto per binocoli di grandi dimensioni, strumenti con prestazioni pregevoli per l’osservazione a largo campo del cielo. Come si intuisce lo strumento diventa più impegnativo, anche come peso ed ingombro, più simile a quello di un telescopio.
 
 
8. come orientarsi nella scelta


Premettiamo che prima di acquistare un binocolo sarebbe sempre opportuno poterci guardare dentro e provarlo sul campo, o, se questo non è possibile, avere a disposizione delle recensioni dettagliate fatte da persone competenti e/o pareri di amici e conoscenti che già hanno acquistato quel prodotto. Recensioni pubblicate degli acquirenti (ad esempio su Amazon) non sempre sono fatte con competenza, ma possono comunque essere in qualche modo indicative.


Guardando attraverso un binocolo vi sono alcune cose alle quali fare attenzione per valutarne la qualità:


1)    Campo apparente di vista - ci sembra di guardare attraverso un "tubo" o la visione è molto ampia e panoramica?     Il campo apparente è di norma misurato in gradi e un buon binocolo dovrebbe darci almeno 60-65 gradi di campo apparente all’oculare. Come confronto consideriamo che l’angolo sotteso dal palmo di una mano alla distanza di un braccio è di circa 20 gradi, quindi dentro l’oculare di un buon binocolo dovremmo aspettarci di vedere all’incirca  un campo con diametro pari almeno all’angolo apparente coperto da “tre spanne” alla distanza di un braccio.


2)    Distorsioni – si possono valutare facilmente osservando qualcosa di rettilineo (il palo di un lampione, lo spigolo della parete di una casa..) e guardandolo prima al centro del campo e portandolo poi verso il bordo. Il nostro palo, o spigolo, è sempre rettilineo o si incurva? Una lieve curvatura è in genere accettabile, ma deve essere lieve. O assente nei binocoli di migliore qualità. Una forte curvatura non è un buon indizio. Frequentemente la distorsione tende ad essere “a cuscino” (linee laterali con concavità rivolta verso l'esterno del campo), oppure a "barilotto" (linee con concavità rivolta il centro del campo). Si tratta di un difetto principalmente  introdotto dalle lenti dell’oculare, ma che risente anche di eventuali difetti dell’obbiettivo (es. curvatura di campo e distorsione). Nei modelli di migliore qualità una costruzione sapiente progetta i vari componenti ottici in modo che tendano a compensare i vari difetti raggiungendo un compromesso ottimale.  

3)    Cromatismo – le lenti tendono inevitabilmente a scomporre la luce nei vari colori. Accoppiando lenti fatte con diversi vetri e curvature opportune è possibile minimizzare, e quasi annullare, il cromatismo. Un buon binocolo non dovrà mostrare iridescenze o frange colorate sui contorni delle cose; un binocolo di scarsa qualità mostrerà invece questo difetto, soprattutto verso i bordi,  che incide sulla nitidezza, contrasto e risoluzione. Il difetto si nota molto su oggetti contrastati, ad esempio antenne o pali metallici o cromati sotto la luce del Sole, stelle luminose, Venere, il contorno della Luna.


4)    Aberrazioni – allontanandoci dal centro del campo le immagini tendono spesso a deteriorarsi ed il difetto non sfugge osservando le stelle, che sono oggetti perfettamente puntiformi. Se le immagini sono buone almeno per metà del campo visivo il binocolo può essere già essere definito discreto, se ai bordi diventano molto allungate o deformate, e con cromatismo evidente non è un indice di elevata qualità. Considerando che il nostro occhio ha la massima risoluzione al centro del campo visivo mentre verso i bordi diminuisce velocemente, un certo grado di deterioramento dell’immagine verso la periferia del campo generalmente può essere accettabile, purché sia contenuto.


5)    Estrazione pupillare – quanto dobbiamo rimanere attaccati con gli occhi agli oculari per vedere bene tutto il campo? L’estrazione pupillare indica la distanza ottimale dell’occhio dalle lenti dell’oculare. Importante che questo valore sia sufficientemente ampio se si osserva con gli occhiali ed anche per avere una visione in posizione comoda. Gli occhiali sono indispensabili per vedere bene se si è astigmatici.  Se si è invece miopi o presbiti, con la sola messa a fuoco del binocolo generalmente si può osservare perfettamente senza l’uso degli occhiali, basta regolare la messa a fuoco, che sarà un po' diversa rispetto a quella di chi non porta occhiali. Questo vale per qualunque telescopio o cannocchiale.


6)    Il trattamento anti-riflesso – Per migliorare la qualità della visione le lenti hanno generalmente dei trattamenti sulla superficie che limitano i riflessi interni e la perdita di luce ad essi dovuta. Di trattamenti ve ne sono di vari tipi e vengono applicati su tutte o solo su alcune superfici. Un buon trattamento anti riflesso dovrebbe esse appena visibile guardando le lenti (ad es. degli obbiettivi) e di colore azzurrino o verde-azzurro a volte anche con vaghi riflessi rossastri. Trattamenti fortemente colorati (arancioni, rossi..) e/o a specchio NON sono dei reali trattamenti antiriflesso, prova è che riflettono molta luce e molto colore, mentre dovrebbero fare il contrario. In questo caso una parte non trascurabile della luce va quindi persa ed infatti danno una visione molto più scura e e meno nitida rispetto ai binocoli ben realizzati. Un buon binocolo deve dare una visione diurna chiara, luminosa e ben dettagliata.

 
7)    Ottiche scollimate – guardando attraverso un binocolo vediamo sdoppiato o ci viene mal di testa? Significa che le ottiche non sono ben collimate, diciamo che il binocolo è “strabico”. E’ quindi difettoso; può aver preso un forte colpo o avere un difetto in fase di fabbricazione.


9.Per concludere: quale binocolo?

 
La varietà di proposte sul mercato sono molte e possono disorientare ed il problema di una scelta può diventare complicato se non abbiamo chiaro in partenza che cosa intendiamo fare con il nostro binocolo.  La scelta dipenderà alla fine anche dalle nostre disponibilità economiche, desideri, progetti di osservazione. E dalle occasioni che avremo. Infatti, se generalmente binocoli di marca possono dare teoricamente maggiori garanzie di qualità, se ne possono trovare anche di dignitosi a poco prezzo, comunque utili all’osservazione sporadica del cielo. Magari con un campo apparente dell’oculare non molto ampio, ma con una qualità dell’immagine soddisfacente.  Per cominciare non occorrono gradi cose, un classico 10x50 o un più maneggevole 8X42, sono binocoli versatili e poco impegnativi che permettono di effettuare moltissime osservazioni interessanti.  Se poi ci verrà la voglia di vedere qualcosa di più, soprattutto se frequentemente ci rechiamo in montagna, allora un binocolo da 70-80 mm di obbiettivo sarà un bel salto di qualità, e, tasche permettendo, un 100- 120 mm un tuffo ancora più profondo nel cielo. Anche se in questo caso lo strumento inizia ad essere più impegnativo anche per ingombro e peso. Ma la visione da cieli limpidi diventa sempre più spettacolare.


10. che cosa osservare?


La cosa più semplice è “passeggiare” nel cielo a curiosare, scorrendo la Via Lattea e scoprendo asterismi e oggetti che magari non avevamo mai notato.  Si possono osservare agevolmente i satelliti di Giove, gli asteroidi più luminosi spostarsi di sera in sera tra le stelle, scorrere oggetti noti come ad esempio gli ammassi aperti, globulari, nebulose diffuse, planetarie, oscure. Da un buon cielo di montagna gustare i più classici oggetti Messier come M42, M31, M8, le Pleiadi… che ci rivelano le stesse forme viste in fotografia, ma con la magia della loro naturale luce soffusa e delicata.  Per le grandi comete il binocolo è uno strumento “principe”, come pure per eclissi di Luna e congiunzioni planetarie ed anche per la visione d’insieme della Luna e delle sue fasi. La luce cinerea poi è uno spettacolo sempre affascinante al binocolo.


Teniamo però bene a mente che nell’osservazione visuale la qualità del cielo è un fattore determinante. E possibilmente è utile anche avere un minimo di esperienza ed abitudine all’osservazione astronomica. Se il nostro binocolo ci delude potrebbe dipendere dal fatto che il luogo da dove osserviamo soffre di inquinamento, luminoso e non, e ha una trasparenza scarsa a causa di foschie e/o smog. Purtroppo diventa ormai sempre più difficile trovare un cielo che si possa definire incontaminato, ma un binocolo, molto più semplice da trasportab
ile di un telescopio, ci può aiutare più facilmente a raggiungerlo.

 Giannantonio Milani, Aprile 2019

Il cannocchiale di Galileo, ovvero le mie celebrazioni galileiane

a cura di Giannantonio Milani



Il fatto di aver vissuto fin da bambino
a Padova, a poca distanza dai luoghi dove Galileo insegnò ed effettuò le sue prime scoperte astronomiche, ha senz'altro avuto un ruolo importante nel mio interesse per l'astronomia.

Camminando a Padova nei pressi della basilica del Santo o nei dintorni del palazzo del Bo', era difficile non immaginare Galileo, avvolto nel suo mantello, che si aggirava tra gli stessi palazzi.
E proprio dalla sua casa di via
dei Vignali (ora via Galileo Galilei) che quattro scoli fa puntò il cannocchiale verso il cielo e diede avvio all'astronomia moderna.


Il telescopio

Telescopio di Galileo autocostruitoPer celebrare anch'io, a modo mio, Galileo nell'anniversario delle sue scoperte sono andato a cercare tra le lenti che ho raccolto in molti anni di astronomia e di esperimenti, per vedere se ce ne fossero di adatte a costruire una replica del leggendario cannocchiale utilizzato da Galileo.

Ho avuto fortuna: ne ho trovate due sostanzialmente equivalenti a quelle utilizzate per il suo cannocchiale più potente (una lente per l'obbiettivo, biconvessa, con una focale di 1 metro e una piano concava di 4 cm di focale per l'oculare). Procurato un adeguato tubo di cartone, colla, nastro adesivo, forbici, mi sono messo all'opera per realizzare il mio “cannocchiale di Galileo” o “perspicillum” come lo aveva denominato lui.

Non si tratta di una replica fedele, nel senso che il tubo ha un diametro maggiore ed è perfettamente cilindrico, a differenza di quelli costruiti da Galileo assemblando listelli di legno. E anche le lenti, come curvature delle superfici e vetri non sono identiche, ma le focali rispettano fedelmente la configurazione originale. La lente dell'obbiettivo è stata diaframmata a 16 mm come nello strumento originale. Il tubo è stato infine rivestito da copie di scritti di Galileo, per poter avere uno strumento “autografato” dal grande scienziato.

 

La prova suo cielo

Il mio scopo era di soddisfare la curiosità di andare verificare di persona cosa avesse effettivamente visto Galileo nelle sue leggendarie notti di osservazione. Realizzato lo strumento, la prima serata era velata, ma le nubi lasciavano intravedere la Luna che aveva da poco passato il primo quarto. Appoggiandomi alla ringhiera del poggiolo ho quindi traguardato la Luna. La prima sorpresa è stata di trovare una certa difficoltà ad inquadrare il nostro satellite. In ormai moltissimi anni di pratica di astronomia e strumenti, contavo di poterlo fare con relativa semplicità. Ho puntato diverse volte strumenti molto più grandi anche senza cercatore e nelle condizioni più varie. Ma la mancanza di un treppiede ed essere inginocchiato sul pavimento complicava indubbiamente le cose. Ma nelle sue prime osservazioni anche Galileo avrà sicuramente operato allo stesso modo.

Una ulteriore complicazione viene dallo schema ottico del telescopio che attraverso l’oculare inquadra un campo di soli 15' (solo un quarto della Luna inquadrata !).

Dopo aver messo a fuoco ho potuto scorgere abbastanza agevolmente le montagne lunari e diversi crateri. Questo nonostante le forti velature delle nuvole.

Il primo test sul cielo era quindi superato, aspettavo ora serate migliori per avere un'idea più chiara sulle prestazioni del “perspicillum”.

Il secondo test è stato su Venere, oltre che nuovamente sulla Luna, stavolta con cielo sereno. Venere si è rivelato un oggetto difficile e comprendo come mai Galileo sia giunto alla scoperta delle fasi del pianeta solo in un secondo tempo, da Arcetri. La luminosità di Venere rendeva evidenti le frange di diffrazione attorno al dischetto del pianeta, rendendo piu' confusa la visione e la percezione della fase. Inoltre e' risultato evidente che la messa a fuoco con questo strumento è molto critica. A causa della piccola apertura relativa, si può avere l'impressione di essere a fuoco anche quando non ci si trova nella posizione ottimale, e in questo caso, anche se non ce ne rendiamo conto l'immagine appare un po’ meno nitida. Dato che si osservano dettagli al limite delle prestazioni dello strumento, basta poco per peggiorare le cose e perdere dei dettagli preziosi. Osservando con attenzione comunque alla fine la fase di venere si distinguabbastanza bene (eravamo poco oltre il 50 percento di fase). Di sicuro con fase piu' pronunciata, e di conseguenza il pianeta più grande come dimensioni apparenti, la fase diventerebbe evidente al primo colpo d'occhio.

La Luna con un cielo limpido mostra con grande chiarezza crateri e montagne, nessun dubbio sul nostro satellite naturale!

Il terzo test: Giove. Il disco del pianeta si staglia subito sul fondo del cielo, apparendo come una piccola pallina leggermente ovalizzata. Molto meno ovvi i satelliti, inizialmente addirittura invisibili a causa di una non perfetta messa a fuoco. Poi molto chiari.

Questo mi ha fatto riflettere sul perche' diverse persone dell'epoca alle quali Galileo aveva mostrato Giove, non avessero visto i satelliti, negando così l’importante scoperta. Il motivo è probabilmente semplice: le differenze nella vista di ciascuno, e nell'accomodamento della messa a fuoco, avrebbero probabilmente richiesto un accurato rifocheggiamento dell'oculare per ciascuno. Ma non era una operazione semplice per dei profani! E la messa a fuoco per la vista di Galileo non è scontato fosse adatta a tutti gli altri osservatori.

 

Impressioni finali

In definitiva lo strumento ha riservato diverse sorprese:

Osservare attraverso il "perspicillum" è stato come guardare dal minuscolo buco di una serratura, ma lo sguardo attraverso quella microscopica finestra quattro secoli fa ha squarciato il velo del limite imposto dall'osservazione ad occhio nudo, permettendo un balzo in avanti di dimensioni sconvolgenti.
Niente da dire: il cannocchiale di Galileo è stato un vero
rivoluzionario “Hubble Space Telescope”, il massimo concesso dalla tecnologia dell'epoca!

Bravissimo Galileo
!!!!

AllegatoDimensione
luoghi-di-galileo.pdf5.44 MB

Eppur si muove! Uno sguardo indiscreto nella vita privata delle stelle

Introduzione

Il cielo, ad eccezione dei moti della Luna e dei pianeti, ad occhio nudo ci appare sostanzialmente immutabile.
Le costellazioni ritornano fedelmente con il loro aspetto dandoci quella parvenza di eterno ripetersi delle cose che ha affascinato e guidato l’uomo per migliaia di anni. Una garanzia ed un riferimento sicuro e stabile di fronte agli imprevisti e complessità della vita e della natura.

Ma il cielo è davvero così statico o c’è gran vita e movimento nascosti lassù?
Uno sguardo un po’ più attento ci rivela che le cose non stanno proprio come sembra (e gli astronomi lo sanno molto bene!). Ebbene, se andiamo a violare la privacy delle stelle scopriremo che molte si danno davvero un gran da fare e non stanno pigramente a risplendere per miliardi di anni. Si danno alla bella vita danzando, pulsando e sorprendendoci anche con veri effetti speciali e fuochi d’artificio adeguati alle loro dimensioni.

Si tratta del mondo delle stelle variabili, chiamate così appunto perché variano di luminosità, e che ci mostrano come l’Universo sia un luogo in continuo movimento ed evoluzione, anche su tempi scala sorprendentemente rapidi. Di stelle variabili ve ne sono di moltissimi tipi, ciascuna con un proprio carattere. Possiamo avere variazioni lente e pacifiche o anche fenomeni rapidi, o rapidissimi e violenti Possiamo incontrare variazioni dovute a mutue eclissi tra più stelle, oppure improvvise eruzioni, comparsa di enormi macchie sulla superficie, sistemi di stelle doppie che orbitano talmente vicine tra loro da scambiarsi materia dando origine a fenomeni cataclismici che liberano immense quantità di energia. O addirittura stelle che, giunte in fasi critiche della loro vita, esplodono liberando un’energia miliardi di volte superiore a quella di una normale stella. La varietà e i meccanismi che entrano in gioco in questi fenomeni superano spesso la più fervida fantasia e mettono a dura prova gli studiosi che cercano di carpirne i segreti.

Dare una panoramica generale sulle stelle variabili è un’impresa ardua per la vastità dell’argomento, e non è lo scopo di queste pagine. Apriremo solo una finestra per avere un rapido assaggio su di un mondo estremamente affascinante e che vede anche gli astrofili a contribuire sullo studio di questa categoria di oggetti. Le stelle sono moltissime, e di stelle variabili se ne scoprono continuamente di nuove. Ne esistono di tanti tipi e sottotipi, ciascuno con le sue peculiarità. Va da se che il campionario di oggetti è incredibilmente ricco e vario. E con il perfezionamento delle tecniche di osservazione si scoprono sempre cose nuove del tutto inattese. Chi è curioso potrà davvero trovare una fonte infinita di approfondimento e di studio in questo settore.

Osservare e misurare le stelle.

Anche se molte stelle variabili possono essere seguite visualmente, per violare a fondo la loro privacy è conveniente utilizzare la tecnica di ripresa digitale, con camere CCD o anche fotocamere digitali. L’occhio riesce a percepire variazioni superiori al 20-30%, i CCD arrivano ad avere una sensibilità dieci volte maggiore, e con tecniche opportune si riesce ad andare anche al di sotto dell’1%. E’ chiaro che non c’è storia. Con questi accessori anche un piccolo telescopio può andare molto al di là delle possibilità del nostro occhio, che pure è uno strumento di osservazione molto versatile, e potremo sbirciare più a fondo in questo mondo affascinante. Quindi immagini digitali e misure. Saranno proprio i numeri a svelarci qualche segreto delle stelle. D’altra parte le stelle sono talmente lontane che per noi rimangono solamente dei punti luminosi. L’unica chance è analizzarne la luce. La fotometria è appunto il primo approccio per iniziare a penetrare qualche segreto.

Ricordiamo comunque che molte stelle variabili mostrano grandi variazioni di luminosità (anche molte magnitudini) e molte sono anche a portata di binocolo. E’ quindi possibile anche visualmente seguire i cambiamenti esibiti da moltissime stelle variabili, senza la necessità di avere una strumentazione particolarmente sofisticata: un binocolo fissato su di un treppiede è già pienamente sufficiente, ma anche l’osservazione ad occhio nudo ci permette di seguire le variabili più luminose. Non si scoraggi chi ha pochi mezzi: l’uomo ha osservato il cielo solo con gli occhi per migliaia di anni riuscendo comunque a studiare e capire moltissime cose.

Dicevamo che delle stelle dunque si misura la luce, e quindi, la magnitudine. Il sistema delle magnitudini è stato inventato oltre 2000 anni fa da Ipparco il quale, nel suo catalogo, ha suddiviso le stelle osservabili ad occhio nudo in sei classi di luminosità, indicando di prima grandezza quelle più luminose e di sesta quelle al limite di visibilità.

E’ una strana scala in ordine inverso in quanto il valore più basso corrisponde alla luminosità più alta. Anche se non ne poteva essere conscio, la scelta di Ipparco non è stata casuale, ma rispecchia la risposta alla luce del nostro occhio. La scala in magnitudini infatti non è lineare (proporzionale), come non è lineare la risposta del nostro occhio che è di tipo logaritmico. E’ questa particolarità dell’occhio che ci permette di avere una visione nitida in un ampio intervallo di illuminazione, ad esempio pieno sole e ombra.

Una definizione matematica rigorosa della scala delle magnitudini si è avuta però solo nel 1856 quando Pogson ha avuto la giusta intuizione, definendola in modo che un salto di cinque magnitudini corrispondesse esattamente ad una differenza di 100 volte nel flusso luminoso. Un aumento (o diminuzione) di una magnitudine corrisponde invece ad un incremento (o diminuzione) di luce di 2,512 volte (come si diceva l’andamento non è lineare). Indubbiamente la scala in magnitudini non è intuitiva, ma non ci interessa entrare troppo nei dettagli. Ci basti avere un’idea di cosa rappresentano questi numeri.

Nei grafici che vedremo a volte sarà riportata la magnitudine apparente V (sostanzialmente uguale alla magnitudine visuale) e a volte solo la differenza di magnitudine rispetto ad una stella di confronto costante di campo. In questo caso non è data la magnitudine reale della stella. Le date sono riportate nella forma della data giuliana, ovvero il numero di giorni trascorsi dal mezzogiorno di lunedì 1 gennaio 4713 a.C.

Non è sicuramente un sistema intuitivo, ma in astronomia è molto usato perché semplifica moltissimo i calcoli tra le date e il computo degli eventuali periodi. E’ semplice intuire che utilizzare nei calcoli data, ora, minuti, secondi, diventa molto più scomodo e richiede comunque una qualche conversione ad un formato di data più conveniente, nel nostro caso appunto il giorno giuliano.

 

U Geminorum , gennaio 2017

U Geminorum è una stella molto famosa nella costellazione dei Gemelli, visibile durante l’inverno. E’la capostipite di una importante classe di stelle variabili chiamate anche variabili esplosive o cataclismiche, o anche novae ricorrenti. La stella normalmente oscilla intorno alla quattordicesima magnitudine, ma in media ogni cento giorni, ha un improvviso rapidissimo guizzo di splendore e diventa 100 volte più luminosa, portandosi intorno alla magnitudine 9. La permanenza al massimo può durare pochi giorni, o anche una settimana o più, e poi la stella abbastanza rapidamente ritorna al livello iniziale. Nei momenti di massimo è facilmente osservabile visualmente anche con piccoli telescopi.

A fine gennaio 2017 U Geminorum ha mostrato un nuovo evento esplosivo con un massimo abbastanza prolungato, ben illustrato dalla curva di luce tratta dal sito dell’AAVSO.

Fig. 1 la curva di luce di U Geminorum tratta dal sito dell’AAVSO (https://www.aavso.org/)

Nello stesso periodo, approfittando di una serie di belle serate, ho seguito la stella con un piccolo telescopio da 15 cm e un CCD, inizialmente per la curiosità di vedere come si comportava al minimo, ma poi anche sperando di vedere un massimo.



Fig. 2 - La U Geminorum il 3 gennaio al minimo (senza filtri) e il 19 gennaio in fase dimassimo (con filtro G) – telescopio newton da 15 cm + CCD – la differenza relativa tra le due stelle in alto nelle due immagini è dovuta all’uso del filtro nella seconda immagine.

le osservazioni raccolte (fig3) mostrano la stella al minimo intorno alla magnitudine 14 a inizio mese e poi il massimo con il salto che la ha portata circa alla magnitudine 9.5



Fig.3 le magnitudine misurate a gennaio da Padova nelle serate di osservazione dedicate a questa stella. La linea è solo indicativa del comportamento della stella. Telescopio da 15 cm + CCD


Ma se questi grafici mostrano già l’entità dell’evento, una osservazione più dettagliata delle singole serate rivela aspetti ancora più straordinari. Seguendo la stella per alcune ore si scopre infatti che la sua luminosità non è costante ma ha una variazione piuttosto complessa ed enigmatica

U Geminorum non è in realtà una stella singola, ma una coppia di stelle molto vicine tra loro che orbitano attorno al comune baricentro in poco più di quattro ore. La cosa è a dir poco impressionante se immaginiamo due stelle con massa simile al Sole che in poche ore danzano girando una intorno all’altra!

Una stella è una nana bianca, piccola e calda alla superficie, e l’altra è rossa, più fredda e maggiormente espansa, talmente estesa da allungarsi verso la compagna e cederle materiale, del gas che cade formando un disco gassoso intorno alla nana bianca, disco che ruota alla vorticosa velocità di 500 km al secondo (disco di accrescimento).

I processi fisici in gioco sono molto complessi, ma possiamo semplificare dicendo che la stella nana accumula materia (che principalmente sarà idrogeno) dalla stella rossa finché la quantità è tale da generare una situazione di forte instabilità. La stella nana allora si libera del materiale in eccesso con una improvvisa esplosione e lo disperde violentemente verso l’esterno. Il processo esplosivo provoca il repentino aumento di luminosità.

Ma le due stelle anche si eclissano tra loro, e il calo di luce dell’eclissi dovuta alla stella più grande che passa davanti alla piccola, e che dura meno di un’ora, è ben visibile nella figura . La cosa strana è l’andamento serpeggiante della luminosità che si ripete quasi esattamente con un ciclo di 4,2 ore, tanto che sovrapponendo le misure di tre serate l’andamento medio appare ben definito con discordanze minime. Potrebbe non essere così tutte le volte perché queste stelle sono sempre un po’ imprevedibili, ma in media vediamo che funziona.

Fig. 4 Nella figura sono state sovrapposte le osservazioni effettuate il 3, 5 e 6 gennaio 2017, sempre da Padova, rifasandole sul periodo di rivoluzione delle due stelle. La fase, da zero a uno, rapporta tutte le osservazioni al periodo di 4,2452 ore (determinato dalle tre serate di osservazione, contro il valore di 4,2457 dato dalle effemeridi http://www.as.up.krakow.pl - una differenza di soli due secondi). Si delinea bene l’eclisse prodotta dalla stella più grande sulla più piccola, un minimo profondo e stretto. Il largo minimo relativo nella parte iniziale della curva è dovuto alla eclisse parziale del disco di accrescimento. Nel grafico la fase è stata calcolata in via provvisoria dall’istante della prima osservazione e non è riferita all’istante previsto per l’eclisse, come generalmente si usa fare nel settore delle variabili a eclisse.


Questo andamento sulle quattro ore è causato da un preciso punto del disco di gas che ruota intorno alla nana bianca dove cade il materiale proveniente dalla stella rossa. Nel punto di impatto si genera una cosiddetta “macchia calda”, una zona talmente luminosa da dominare le variazioni di luce del sistema! La variazione è dovuta dalla posizione della macchia, e del disco. Vengono infatti anch’essi eclissati dalla stella più grande, ed è proprio l’eclisse della macchia a smorzare la luminosità complessiva che invece raggiunge il massimo quando la macchia calda guarda verso di noi. La macchia non è allineata con i baricentri delle due stelle, ma per gli effetti mareali si trova spostata in avanti, e per questo la variazione non è in fase con l’eclisse della nana bianca.

Fig.5 Una raffigurazione artistica di una variabile cataclismica: “normal star” la stella normale più espansa , “white dwarf” la nana bianca “accretion disk” il disco di accrescimento del gas che cade dalla prima stella, “hot spot” la macchia calda generata dalla caduta del gas sul disco. (K. Smale)

La descrizione fatta è piuttosto schematica ma sufficiente a mostrarci quanto complesse e straordinarie siano queste categorie di stelle e quali strani e impensabili equilibri regolano le loro vita in queste fasi critiche. . E molti dettagli li possiamo leggere proprio nelle curve di luce fatte con modesti mezzi amatoriali!



WZ Sagittae - 2001

Un caso peculiare di variabile di tipo U Geminorum è la WZ Sagittae, che ha la caratteristica di esibirsi più raramente in fenomeni esplosivi. L’ultimo nel 2001. Che si tratti di una stella molto più esagitata è evidente dalla curva di luce fatta il 6 agosto 2001 che ci mostra non solo dei minimi dovuti ad eclissi, come nel caso precedente, ma anche continue fluttuazioni rapide dovute al gas che cade a fiotti sul disco di accrescimento e forse anche a variazioni della stella stessa. Fig. 6 e 7. Come si diceva, ogni stella ha il suo carattere e le sue particolarità. Tutte potranno sempre sorprenderci con comportamenti strani o inattesi se saremo pronti a coglierli.



Fig. 6 le variazioni della variabile WZ Sagittae durante il suo ultimo outburst nel 2001. Osservazioni effettuate da Padova con un telescopio newtoniano da 20 cm e CCD.

 

Fig. 7 -La complessità e rapidità delle variazioni di WZ Sagittae sono ancora più evidenti nelle curve di luce di molti altri osservatori, come ad esempio questa di un osservatore indiano al Dekalb Observatory (http://starkey.ws/WZ_Sge_Page.html)



DY Pegasi 2015-2016

Ci addentriamo qui in una categoria di stelle piuttosto strane: sono variabili pulsanti. Potremmo dire quasi che respirano. Ve ne sono di molti tipi, lente e veloci. Queste sono sorprendenti per la loro rapidità nella pulsazione. Meno famose perché rappresentano una classe ristretta e forse anche perché la capostipite della famiglia è la SX Phenicis, che è situata nella costellazione australe della Fenice, invisibile nel nostro cielo.

Anche in questo caso è incredibile come una stella sia in grado di modificarsi letteralmente sotto i nostri occhi. La DY Peg compie un ciclo di pulsazione in appena un’ora e tre quarti. Pulsando cambia di temperatura alla superficie, ma anche i gas superficiali divengono per questo più o meno opachi. L’insieme di variazione di diametro, temperatura e opacità causa le fluttuazioni di luce che osserviamo, anche di notevole ampiezza su alcune di queste stelle!

Il caso che mostriamo riguarda la DY Pegasi, per noi una comoda stella da osservare nel periodo tra fine estate e inverno . Fig. 8 Le osservazioni fatte il 30 agosto sono state effettuate con due filtri: G ed R (verde e rosso da tricromia). Pur non essendo dei filtri proprio standard per la fotometria ci permettono di apprezzare come la differenza tra verde e rosso al massimo e al minimo sia diversa : circa 0,15 magnitudini al minimo e 0,26 al massimo. Queste differenze nei numeri ci indicano una differenza di colore, più accentuata al massimo e meno al minimo, differenza che indica anche una diversa temperatura. Ecco che vediamo all’opera sul nostro grafico gli effetti della pulsazione!



Fig. 8 – la DY Pegasi osservata da Padova con un telescopio da 10 cm di diametro e CCD.

 

Conclusione

Nel chiudere questo fugace sguardo alla vita privata di tre stelle, sbirciando attraverso il buco della serratura rappresentato dal nostro piccolo telescopio. Come si può intuire da questo piccolo assaggio il campo delle variabili è estremamente ricco. I più curiosi potranno trovare moltissime informazioni in rete su questo argomento. All’ambito delle stelle variabili va segnalato che è correlata anche l’osservazione del lievissimo calo di luce prodotto dai transiti di pianeti orbitanti intorno ad altre stelle. Osservazioni difficili e che richiedono tecniche specifiche, ma è significativo il fatto che il primo transito amatoriale di un pianeta extrasolare sia stato rilevato con un telescopio di soli 10 cm di diametro. Dunque alle varie possibilità osservative si aggiunge anche il fascino di riuscire a vedere, sia pure indirettamente, dei mondi lontanissimi che orbitano intorno ad altre stelle. Sembra fantascienza ma è invece realtà!

Il sito dell’AAVSO (American Association of Variable Star Observers) è il più ricco, con manuali, articoli, cartine, dati osservativi aggiornati, e molto altro.

https://www.aavso.org/

https://it.wikipedia.org/wiki/Stella_variabile

https://it.wikipedia.org/wiki/Nomenclatura_delle_stelle_variabili

http://sintiniobservatory.interfree.it/testi/manualeGRAV.pdf

http://specola.ch/fioravanzo/2013/Axel_Kuhn.pdf

https://stellevariabili.uai.it

A caccia di comete - una guida per l'osservazione e la ripresa delle immagini

Tra i molti oggetti che popolano il cielo le comete sono spesso delle prede molto ambite, soprattutto in occasione di apparizioni di rari oggetti spettacolari e luminosi che catturano l’attenzione generale. In passato erano anche oggetto di una vera e propria caccia da parte di molti appassionati per la particolarità di poter legare il proprio nome ad una nuova cometa. La ricerca era prevalentemente condotta visualmente scandagliando il cielo con strategie ben pianificate in ogni notte serena. Molti i nomi legati a comete: in Italia l’ultim

o straordinario cacciatore visuale è stato Mauro Vittorio Zanotta che il 23 dicembre del 1991 ha coronato il suo sogno con la scoperta della C/1991 Y1 (Zanotta-Brewington), oltre ad essere stato scopritore indipendente di altre due comete.  A livello professionale , come italiano, attualmente troneggia invece Andrea Boattini, membro del Catalina Sky Survey, che presso il Catalina Observatory ha scoperto ben 25 comete, oltre a moltissimi asteroidi.

Oggi le numerose survey condotte con telescopi automatici, soprattutto professionali, anche con strumenti di grande diametro, scandagliano il cielo in profondità riducendo quasi a zero le possibilità di scoperte amatoriali con piccoli strumenti.  Ma se questo toglie uno degli elementi che rendevano affascinanti le comete, altri ne rimangono che invogliano nell’osservazione.  Infatti di comete da inseguire ce ne sono sempre, e ogni anno diverse giungono alla portata  di piccoli strumenti dotati di camera CCD ed alcune anche osservabili visualmente.  E’ strano notare come le comete vengano sistematicamente ignorate dagli osservatori di profondo cielo, nonostante siano pienamente alla portata di strumenti amatoriali e rappresentino sempre una curiosità da non sottovalutare, sia a livello estetico che scientifico. Probabilmente manca in generale una conoscenza di base sulle continue scoperte e riscoperte e su come osservarle. Spero che le pagine che seguono possano essere di aiuto per chi voglia provare a cimentarsi in questo settore colmando in parte questa lacuna.

1. Le basi per l’osservazione

Prima di tutto vediamo alcune informazioni preliminari che è bene avere:

1)     Le comete hanno il vizio di spostarsi nel cielo, anche rapidamente se si trovano molto vicine a noi. E’ quindi indispensabile conoscere la loro posizione per il momento dell’osservazione. I software di mappe stellari servono adeguatamente allo scopo, l’importante è aggiornare frequentemente gli elementi orbitali delle comete periodiche in quanto ad ogni apparizione vi sono delle differenze anche notevoli. E aggiungere naturalmente quelle nuove, dove i parametri orbitali iniziali sono spesso poco accurati e vengono poi raffinati nel tempo. I file nel formato usato dai principali programmi di mappe stellari sono reperibili al sito:

 

http://www.minorplanetcenter.net/iau/Ephemerides/SoftwareEls.html.

 

2)     Le comete sono oggetti di tipo nebulare, quindi teniamo presente che la loro luce è diffusa e la luminosità superficiale bassa, al pari di una stella molto sfocata. Più sono diffuse ed estese più è difficile osservarle.

3)     La massima luminosità, salvo eventi imprevisti o avvicinamenti al nostro pianeta, è raggiunta al perielio, quando, nei casi di comete potenzialmente luminose, la cometa è più vicina al Sole. Se la distanza perielica è piccola la cometa potrà essere anche molto luminosa, ma si troverà anche vicinissima al Sole, quindi il più delle volte inosservabile in quel momento.

4)     Diffidare delle notizie date dai mezzi di informazione che mirano più a fare notizia più che fornire una informazione corretta! Al 99% sono inaffidabili dal punto di vista dell’osservazione. Fare riferimento a fonti certe.

Indicazioni generalmente aggiornate sulla luminosità e visibilità dei vari oggetti sono pubblicate ad esempio sui siti  http://www.ast.cam.ac.uk/~jds/  https://cobs.si/  www.aerith.net   www.skylive.com

5)     Mentre è relativamente facile riprendere una cometa al telescopio con una camera CCD, è invece difficile osservarla visualmente con lo stesso strumento. L’aspetto diffuso e i cieli disturbati da inquinamento luminoso rappresentano un grande limite. E’ necessaria inoltre un po’ di esperienza nell’osservazione visuale di oggetti deboli, che non è scontata. Salvo casi di comete spettacolari molto luminose, per l’osservazione visuale è sempre indicato un cielo di montagna in notti senza il disturbo della Luna e di inquinamento luminoso ed un buon adattamento dell’occhio all’oscurità (almeno 15-20 minuti). Per le comete più luminose può essere comodo un binocolo montato stabilmente su di un treppiede, oppure un telescopio utilizzato a bassi ingrandimenti (pratici i ”dobsoniani” per la trasportabilità e semplicità d’uso)

2.Come trovare la cometa nel cielo.

Sapere dove osservare è fondamentale perché raramente la cometa sarà un oggetto vistoso. E non di rado osservatori occasionali sono stati tratti in inganno da indicazioni del tutto fantasiose date dai mezzi di informazione.

Con l’aiuto di un software di mappe stellari (ad es. Guide, Cartes du Ciel, Stellarium…) è semplice localizzare la posizione della cometa, che va sempre calcolata per la data e ora della nostra osservazione, dato che la cometa si sposta lentamente tra le stelle. Ricordarsi di aggiornare frequentemente gli elementi orbitali nel software per avere sempre indicazioni accurate sulla posizione.   

Come esempio riportiamo il menù fornito dal software Guide che può visualizzare un elenco delle comete osservabili nella data scelta entro la magnitudine impostata. (Fig. 1)

Attenzione che i software danno un elenco di tutte le comete note! Alcune potrebbero essere perse o dissolte o essere state osservate solo durante un temporaneo aumento (“outburst”). E la magnitudine è calcolata con una formula standard che “mediamente” funziona sulle comete “nuove” (con grossa approssimazione), mentre per le comete periodiche è grosso modo indicativa solo intorno al perielio. Ma le periodiche hanno spesso curve di luce che seguono andamenti molto diversi da quello della formula. Inoltre la magnitudine non si sa se sia tratta da dati visuali e nel caso con quale strumento, fotografici, ccd…  Sono quindi da valutare dati aggiornati per avere una previsione più realistica (vedi i link citati nella pagina precedente). Attenzione che i dati visuali e CCD possono essere anche molto discordanti tra loro, e che anche tra gli stessi dati visuali vi è una enorme dispersione, in parte legato a strumenti e metodi differenti, ma forse anche è andato un po’ perso un certo rigore nel metodo utilizzato per le stime.  Quindi non prendere mai le previsioni di luminosità come oro colato, anche perché spesso le comete sono oggetti comunque difficili e imprevedibili.

Tornando all’elenco di Guide cliccando sulla cometa si visualizza direttamente la mappa. Le dimensioni del cerchio che raffigura la chioma della sono legate alla distanza della cometa dalla Terra e danno una idea puramente indicativa (non realistica) delle differenze che potremmo attenderci tra i diversi oggetti.

 

Fig. 1 – esempio di un elenco delle comete osservabili fino alla quindicesima magnitudine per una specifica data, ora e luogo di osservazione

 Viene anche indicato l’orientamento della coda di gas ionizzati in prima approssimazione opposta al Sole. La sua lunghezza varia a seconda della distanza dal Sole e della prospettiva. Nell’esempio di Fig 2 la linea di vista è quasi in linea con la coda. 

 

Fig.2 mappa per la cometa 45P/Honda-Mrkos-Pajdusakova. Il riquadro indica il campo del CCD, utile per studiare l’inquadratura.

Dal programma, cliccando con il tasto destro del mouse sulla cometa,  possiamo avere altre informazioni utili (fig. 3), tra le quali:

-        Data del perielio e minima distanza dal Sole

-        La distanza dal Sole e dalla Terra al momento fissato e l’angolo di fase (Terra-Sole-Cometa - con un po’ di esperienza utile per valutare le possibili dimensioni apparenti e la possibile morfologia legata alla prospettiva)

-        La magnitudine prevista dalle effemeridi, che per molti  motivi può essere errata anche di alcune magnitudini, soprattutto per le comete periodiche. Le previsioni sono fatte con i dati disponibili  e assumendo un andamento teorico con parametri standard costanti; la situazione ed evoluzione reale è spesso assai diversa.

-        La velocità apparente sulla volta celeste in secondi d’arco/minuto e l’angolo della direzione del moto proprio (Angolo di Posizione: si conta da Nord in senso antiorario)

 

Fig. 3 schermata delle informazioni supplementari che vengono richiamate cliccando con il tasto destro del mouse (ulteriori informazioni)

Su Guide la velocità del  moto proprio è indicata in primi/ora, ma il valore è lo stesso se si esprime in secondi d’arco/minuto (nella trasformazione si moltiplica sia numeratore che denominatore per 60 ed il risultato non cambia). In questo secondo formato risulta più utile per programmare le riprese di immagini.

A questo punto è fondamentale conoscere la scala immagine in secondi d’arco/pixel della nostra combinazione telescopio-CCD che è data da:

scala= (pix/f) × 206,265

dove pix è la dimensione in micron di un pixel e f la lunghezza focale dell’obbiettivo in millimetri.

Ad esempio con una focale di 1200 mm e un pixel da 7 micron avremo una scala immagine di 1,203 secondi d’arco/pixel.

La scala immagine in secondi d’arco/pixel può essere ricavata anche direttamente da Guide impostando i dati nelle opzioni della finestra del riquadro CCD.  

 Si deve calcolare ora il tempo di posa massimo utile perché la cometa non risulti mossa guidando sulle stelle. Ovvero durante il tempo di posa la cometa dovrà spostarsi al massimo di un pixel.

Ad esempio con scala di 1,20 secondi d’arco/pixel se ipotizziamo che la cometa abbia un moto proprio di 2”/minuto minuto allora la posa massima consentita sarà di

Posa max  = 60*(scala immagine)/(moto proprio)

Nel nostro esempio   60*1,203/2  = 36 secondi.

In questo caso, a meno che le condizioni del cielo non siano particolarmente buone (seeing ottimo), potremo anche scegliere di operare in binning  2x2 con una scala immagine di 2,4 secondi d’arco/pixel,  potendo così raddoppiare il tempo di posa (72 secondi). Questo è particolarmente utile in caso di comete deboli.

Definito il tempo di posa imposteremo una sequenza di immagini il cui numero dipenderà da molti fattori, tra cui la luminosità della cometa. In generale però teniamo presente che più pose abbiamo migliore sarà  il rapporto segnale/rumore e la qualità generale dell’immagine. Una prima valutazione può essere fatta su una immagine appena acquisita (non pre-processata) leggendo il valore ADU sul fondo cielo e sul falso nucleo della cometa.  Idealmente per una buona fotometria, ma anche per ottenere buone elaborazioni, il segnale dovrebbe essere almeno dell’ordine di migliaia di conteggi, o qualche decina di migliaia (sempre restando sotto il livello di saturazione). Ma è chiaro che la situazione è sempre mutevole (e a volte imprevedibile) per cui sarà l’esperienza a suggerirci il compromesso ideale per la serata e l’oggetto inquadrato.    Potremmo andare da una posa complessiva di 5-10 minuti fino anche a 1-2 ore, o anche più in casi di oggetti particolarmente deboli.  

Nell’inquadratura tenere sempre presente lo spostamento della cometa nel campo durante la sequenza di pose. Le lunghe pose migliorano il rapporto segnale/rumore, ma anche aumentano il rischio che la cometa si sovrapponga a qualche fastidiosa traccia stellare. Il problema si fa particolarmente arduo se la cometa attraversa densi campi stellari. In questi casi l’uso della mediana tende a rimuovere le tracce stellari, ma ricordiamo che la mediana non è un processo lineare, quindi va usato con prudenza in caso di misure quantitative, anche se una serie di test accurati effettuati recentemente da Mauro Facchini, confermano che in generale il risultato è equivalente.

E’ chiaro che le comete appaiono dove vogliono e  come vogliono, sia come posizione in cielo che come orario, e questo rende più complicata l’osservazione, ma queste condizioni sempre mutevoli fanno parte del gioco.

In definitiva: quante pose e quanto lunghe? Come abbiamo visto non è facile rispondere. E’ noto che una posa singola fornisce un miglior rapporto segnale/rumore rispetto ad una media di molte pose con esposizione complessiva equivalente, ma la situazione non è così drammatica come viene spesso dipinta e di fatto, ad esempio, una media di 30 pose da un minuto non è in realtà di molto inferiore ad una posa singola di 30 minuti. La resa poi varia con il tipo di CCD che utilizziamo ed alcuni rendono meglio su pose lunghe, altri su pose relativamente corte in relazione al range dinamico (determinato dalla “full well capacity” – capacità di un pixel di contenere elettroni), dalla rumorosità, temperatura ecc…

Un vantaggio di avere una sequenza di pose è, come abbiamo visto, di poter congelare il moto della cometa, ma anche di poter rimuovere meglio le tracce dei raggi cosmici o gli effetti di altri possibili disturbi (nuvola di passaggio, aerei, mosso per forte raffica di vento…). Inoltre per chi opera con un cielo disturbato da inquinamento luminoso non è mai conveniente usare pose troppo lunghe che alzano il livello del fondo cielo riducendo l’intervallo dinamico misurabile.

Con un tempo di posa relativamente breve è anche più agevole ottenere una buona sequenza di dark frame per la correzione delle immagini in un tempo ragionevole (ad es. circa 10-15 minuti con pose da 1 minuto). Il contro è un maggiore ingombro dell’hard disk.  Si può provare a realizzare una sorta di banca di “dark frame” ottenuti a diverse temperature, ma riprodurre esattamente le stesse condizioni strumentali (temperatura esterna, umidità, ecc..) è quasi impossibile e solo strumenti professionali raffreddati a temperature molto basse e perfettamente calibrati permettono una reale “caratterizzazione” (taratura assoluta) del sistema. Teniamo conto che se vogliamo effettuare misure di un qualche tipo è fondamentale ottenere una immagine della migliore qualità possibile. Per immagini di tipo estetico molti operano molto con software di ritocco, che però falsifica sempre l’immagine. E una immagine falsificata non è più misurabile.

Se si vuole avere la certezza, senza rischiare di buttare via una nottata, è meglio riprendere dark e flat durante la stessa notte. In casi particolarmente sfortunati (per fortuna molto rari), se le condizioni ambientali cambiano drasticamente durante la notte può essere impossibile ottenere dei buoni flat e dei dark perché le riprese saranno state effettuate in condizioni mutevoli. Lo stesso accade se, con un catadiottrico o un rifrattore, si appannano leggermente le ottiche e non ce ne accorgiamo. Fasce anticondensa sono sempre indicate.

Per ottenere una immagine utile ad effettuare misure ed elaborazioni è fondamentale è il pretrattamento delle immagini, ovvero la sottrazione del “dark frame” e la correzione del “flat field”. In questo modo in realtà non potremo realmente eliminare i rumori[1] insiti nell’immagine (anzi ne aggiungeremo), ma essa conterrà una informazione il più fedele possibile alla realtà.

La procedura per il “dark è semplice: si tratta di ottenere una sequenza di immagini con otturatore chiuso con stesso tempo di posa ed alla stessa temperatura delle immagini dell’oggetto, che andranno mediate per ottenere un cosiddetto “master dark” da sottrarre dalle immagini.  Normalmente è raccomandata l’acquisizione di una sequenza almeno di una decina di pose. Ovviamente diventa un problema se si effettuano pose lunghe, ma normalmente le comete hanno un elevato moto proprio e il tempo di posa, salvo casi di comete lontane o che si muovono in direzione della Terra, è necessariamente limitato.  Nella serata, se si riprendono più comete, è conveniente generalmente adottare un tempo di posa standard uguale per tutte, cosa che semplifica poi i pretrattamenti e fa risparmiare tempo.

Il “flat field” è la correzione più delicata. Si tratta di riprendere l’immagine di uno schermo uniformemente illuminato che serve poi per correggere la disuniformità di sensibilità del sensore e i difetti introdotti dal sistema ottico (vignettatura, polvere sul cammino ottico, ecc…). Non è una correzione del fondo cielo ma dei rumori (e difetti) complessivi del sistema ottico ed elettronico. Per chi desidera approfondire questo ed altri argomenti di tipo tecnico si consiglia il prezioso blog di astronomia digitale lasciatoci in eredità da Martino Nicolini. 

http://astronomiadigitale.blogspot.it/ 

Per la fotometria è opportuno regolare l’intensità dello schermo in modo che il tempo di posa per acquisire il flat field sia intorno ai 10 secondi e in ogni caso non inferiore ai 5. Lo schermo deve essere illuminato uniformemente, posto davanti al telescopio perpendicolarmente all’asse ottico.  Questo evita possibili problemi legati alla velocità dell’otturatore, se meccanico, e allo scaricamento dell’immagine se il ccd ha il cosiddetto “otturatore elettronico” (ovvero non ha otturatore).  Ricordiamo che un cattivo flat field può peggiorare di molto le cose anziché migliorarle. Infine non usare mai flat field sintetici su immagini destinate ad analisi fotometrica.

Potremo in seguito correggere via software (mediante sottrazione) l’eventuale gradiente di fondo cielo (crepuscolo e/o inquinamento luminoso), ma dobbiamo essere ragionevolmente certi che si tratti solo di un disturbo aggiuntivo e non ad esempio di un flat field mal fatto o di riflessi accidentali dentro al telescopio (inquinamento luminoso o Luna ad esempio). Avere questa sicurezza non è banale e sarà solo l’esperienza a guidarci. Nell’incertezza si sconsiglia di applicare questo tipo di correzione se si intendono effettuare delle misure quantitative sull’immagine.  

Eseguito il pretrattamento delle immagini potremo procedere ad allinearle sul moto della cometa. Questo può essere fatto manualmente prendendo come riferimento il falso nucleo,  o automaticamente.  I risultati migliori si hanno allineando automaticamente in base allo spostamento teorico della cometa e all’angolo di posizione del moto proprio. I dati  da impostare al riguardo sono ottenibili come abbiamo visto ad esempio da Guide. 

Se il software che utilizziamo non consente l’allineamento automatico sul moto proprio potremo comunque allineare manualmente le immagini sul falso nucleo della chioma. Meno accurato, soprattutto su comete deboli, mentre su oggetti molto luminosi fornisce comunque buoni risultati. La qualità dell’allineamento sarà data dalla bontà della traccia stellare, ottima se rettilinea, meno buona se ondulata o frastagliata.

Alcuni software permettono di effettuare l’allineamento sul moto proprio automaticamente (Astroart 5-6, Astrometrica).

Però prima teniamo presente che:

a)     Se l’intento è ottenere una immagine di tipo scientifico, per misurare una posizione astrometrica, fare fotometria o studi di tipo morfologico, allora  è essenziale congelare il moto della cometa entro un pixel  in ogni singola immagine.

b)     Per fotometria è anche necessario avere una immagine mediata ed allineata sulle stelle, in modo da poter effettuare delle misure su stelle di riferimento nello stesso campo della cometa.

c)     Se vogliamo fare belle immagini (anche a colori) della coda, il centro della cometa non ci interessa perché verrà saturato nell’immagine finale.  In questo caso un certo livello di mosso è accettabile (3-4 pixel o anche più se la cometa è grande) e sarà nascosto nella saturazione della parte centrale della chioma.

Nella fotometria fare attenzione che il software applichi la media alle immagini (average in inglese), e non la mediana (median in inglese - a volte i termini possono apparire ambigui).  Se il rapporto segnale/rumore è elevato si può anche usare anche la media con la funzione sigma clip, che elimina ad esempio i raggi cosmici e i pixel caldi.

Per la fotometria utilizzare sempre la media sia per l’immagine della cometa e delle stelle; in questo modo il tempo di posa da considerare è quello di una singola posa. Se invece si sommassero le immagini il tempo di posa da considerare sarebbe la somma dei tempi di posa.  Poiché al lato pratico media e somma sono equivalenti è in generale conveniente la media per evitare calcoli ulteriori e possibili errori accidentali.

Con alcune montature è possibile anche impostare un inseguimento automatico di tipo meccanico calcolato per il moto della cometa consentendo di impostare pose più lunghe, ma raramente è accurato come l’allineamento delle singole immagini sul moto proprio, sia per imprecisioni meccaniche sia per effetti introdotti dall’atmosfera legati alla rifrazione ad al seeing [2]. E nel caso di fotometria si perde anche il vantaggio di poter avere dei riferimenti stellari nelle stesse immagini.  Vi è inoltre il problema che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare avendo a che fare con un oggetto diffuso, la qualità dell’immagine (guida, messa a fuoco, seeing) è molto importante nell’approccio della fotometria Af[rho][3] dove si opera con finestre di misure concentriche a partire da un raggio di 1-2 pixel.  Una sfocatura o un allineamento inaccurato modifica il profilo fotometrico della chioma (soprattutto interna) e aggiunge errore nelle misure fotometriche e nei dati numerici finali. Chiaramente con le comete avere una situazione standard è impossibile, ma è bene cercare di ottenere il meglio dalla strumentazione disponibile compatibilmente con le condizioni del cielo e della serata.

L’inseguimento impostato sulla montature però può essere molto utile per aumentare il tempo di posa nelle riprese della coda (soprattutto gassosa), solitamente molto debole. Per la coda, considerata la bassa luminosità superficiale,  sono molto indicate ottiche luminose (f/2 – f/4 ).

Dal lato scientifico sebbene si usi ricavare magnitudini totali della chioma (analogamente a quanto viene fatto visualmente), con il CCD è più interessante effettuare un diverso tipo di misurazione relativa alla quantità Af[rho], alla quale si è accennato poco sopra, e preferibilmente riprendendo con un filtro fotometrico R o I (Cousins o Bessel). In questo modo è possibile avere informazioni quantitative correlabili alle polveri.  Un passo ulteriore è di utilizzare filtri specifici a banda molto stretta per isolare emissioni gassose o luce riflessa dalle polveri. L’uso dei filtri ovviamente toglie luce e richiede un maggiore tempo di integrazione. I filtri R ed I inoltre tagliano alcune emissioni della chioma e della coda; la cosa è svantaggiosa dal lato estetico, ma è invece vantaggiosa dal lato scientifico.

La magnitudine totale ricalca invece quanto viene fatto visualmente, stimando con tecniche opportune[4] la luminosità totale della chioma della cometa. E’ interessante per delineare l’andamento della luminosità osservata nel corso dell’apparizione.

Per immagini a colori, soprattutto di comete luminose, sono ottime anche le fotocamere digitali, tenendo presente che la qualità del cielo è molto importante per non avere strane dominanti di colore nel fondo cielo.  Inoltre, essendo oggetti diffusi, è fondamentale avere un’ottima trasparenza del cielo.

3.Un esempio di  pretrattamento ed allineamento con Astroart 6

Dal menù TOOLS -> PREPROCESSING

La selezione delle immagini vine effettuata trascinando (anche a gruppi) i file dal riquadro in basso a sinistra sulla finestra corrispondente a immagini, dark frame, flat field e dark del flat field. Il bias (riquadro in alto a destra) non è solitamente necessario essendo già compreso nel dark.

 

Fig 4 il menù di selezione dei file per il pretrattamento (preprocessing)

Si seleziona a questo punto:

-la media per l’immagine finale “average

- l’allineamento “star pattern + rotate”, che allinea identificando le stelle di campo e compensa eventuali rotazioni di campo se la montatura non è perfettamente orientata al polo.

- per allineare sul moto proprio della cometa usare la funzione “follow minor planet”. Con il comando “find” si identifica l’oggetto (se lo abbiamo identificato prima con la funzione “atlante stellare” viene già selezionato in automatico). Impostare la scala immagine del CCD (secondi d’arco/pixel) e l’eventuale rotazione di campo rispetto al Nord (“Angle”) se il ccd non è orientato perfettamente. Il valore della rotazione di campo lo si trova sull’header del FITS (voce: “CROTA”) dopo aver calibrato astrometricamente l’immagine allineata sulle stelle[5].

A questo proposito ricordiamo che orientare correttamente il CCD (Nord in alto, Est a sinistra) è un requisito fondamentale per poter operare agevolmente e per poter verificare e riconoscere immediatamente il campo inquadrato sia sul campo che dopo in fase di elaborazione e misura. Lavorare con immagini orientate in modo casuale risulta molto stressante e poco pratico.

Ritornando al nostro menù di Astroart diamo OK e il programma allineerà le immagini sul moto proprio della cometa.

Se le immagini sono state acquisite con un software diverso da Astroart potremmo dover fare delle operazioni ulteriori. Alcuni software infatti non salvano l’immagine in un formato FITS del tutto “standard”. Per comodità, e risparmiare qualche linea di programma, lo standard è “semplificato” e aprendo queste immagini in Astroart possono apparirci invertite, alto-basso o destra-sinistra. La calibrazione astrometrica (che vedremo meglio in seguito) normalmente identifica ugualmente le stelle e le frecce verdi di riferimento che appaiono in alto a sinistra ci indicano le direzioni Nord ed Est, dalle quali possiamo capire come sia invertita l’immagine.

Per allineare le immagini a questo punto bisogna o prima “raddrizzarle” oppure calcolare l’angolo corrispondente del moto proprio con i riferimenti Nord o Est invertiti.  Considerato che è una inutile seccatura e perdita di tempo consigliamo di acquisire con Astroart in modo da avere sicuramente immagini FITS standard.  Avere immagini standard è utile anche se si inviano le immagini ad altri. Trovarsi ad aprire immagini con campi stellari speculari o non chiaramente orientati, e non sempre immediatamente riconoscibili, è piuttosto frustrante per chi deve lavorarci su, soprattutto se le immagini da analizzare sono molte.

  

Fig. 5  - le opzioni  di pretrattamento:   la media delle immagini (average), l’allineamento automatico sulle stelle (star pattern+ rotate), i dati per l’allineamento con il moto proprio (follow minor planet) con moto proprio, angolo di posizione, scala dei pixel in secondi d’arco, l’angolo di rotazione dell’immagine rispetto al Nord, ricavabile dall’header del  fits (ultima voce CROTA) dopo la calibrazione astrometrica.

 

Fig 6.  La ricerca dell’oggetto con il comando “FIND” dalla schermata del pretrattamento o dall’atlante stellare.

 

Fig. 7 -L’immagine finale della cometa 45P allineata sul moto della cometa. La discontinuità delle tracce stellari è dovuta al passaggio di velature nel cielo.  Questa cometa si è trovata molto vicina al nostro pianeta, quindi con un moto proprio elevato. Mediamente lo spostamento di una cometa è inferiore.

La lunghezza delle tracce stellari dipende naturalmente anche dalla focale del telescopio, oltre che dal moto proprio: focale lunga tracce lunghe; focale corta tracce corte.

Abbiamo accennato alla calibrazione astrometrica; questa può essere fatta agevolmente aprendo in parallelo l’atlante stellare. La funzione trova stelle (reference stars: automatic) riesce generalmente a identificare le stelle di campo sull’immagine e definire l’orientamento e la scala. Con la funzione “astrometry” (astrometria) infine si calibra astrometricamente l’immagine. Ricordarsi di ri-salvarla per salvare anche la calibrazione appena fatta.  Sull’immagine oltre alla direzione Nord ed Est è possibile leggere direttamente le coordinate dei diversi oggetti sul bordo inferiore muovendo il cursore sullo schermo.

La calibrazione astrometrica è fondamentale per procedere poi alle misure fotometriche nel caso si effettui ad esempio una analisi fotometrica con il software Winafrho (per la misurazione Af[rho]) che identificherà le stelle adatte sull’immagine  dai cataloghi on-line (o salvati su disco).  Winafrho è il software realizzato da Roberto Trabatti per uniformare le procedure nell’ambito del progetto CARA e che oltre a misurare fotometricamente l’immagine, calcola la quantità Af[rho] e salva i dati nel formato proprietario CARA, un file in formato di archivio già utilizzabile per una analisi più approfondita. Una analisi di questo tipo richiederebbe però una estesa trattazione a parte, per cui ci limitiamo solamente ad accennarne in questa sede.

 

Fig. 8 Dall’atlante si può impostare il riconoscimento automatico delle stelle ed effettuare la calibrazione astrometrica, dopo la quale appare in alto a sinistra sull’immagine l’indicazione del Nord e dell’Est

 

4.Elaborazioni

L’elaborazione delle immagini è un aspetto alquanto affascinante dell’astronomia digitale, ed anche una questione non banale con risvolti di tipo filosofico e scientifico di un certo rilievo. In molti casi “elaborare” una immagine significa modificarla ed alterarla, operando quindi una falsificazione più o meno accentuata.

Molto dipende alla fine dall’approccio che vogliamo adottare e dalle nostre finalità. Ci interessa riprendere una immagine fine a se stessa, possibilmente esteticamente bella? O vogliamo registrare un documento il più fedele possibile alla realtà e utile anche per misure ed analisi?  Le due strade possono seguire anche strade (fortemente) divergenti: c’è ad esempio chi preferisce dedicare più tempo possibile alle riprese, limitando o tralasciando l’acquisizione di dark e flat, e rimediando poi ad aggiustare i difetti a posteriori via software. E c’è chi segue la via canonica di ottenere all’origine una immagine il più fedele possibile al’originale curando a fondo la correzione dei rumori.  A mio avviso è sempre preferibile la seconda in quanto una immagine ben realizzata è sempre un punto di partenza ideale, ed è poi adatta sia a misure ed analisi che ad elaborazioni di ogni genere. Importante è ricordare che più segnale c’è, più l’immagine sarà ricca di informazione. E ovviamente ricordare anche che un buon cielo limpido senza inquinamento luminoso è una condizione raccomandabile per ottenere splendide immagini, anche se, sfruttando le serate migliori, risultati di tutto rispetto si possono ottenere anche da cieli cittadini, per lo meno su oggetti luminosi.

 Nel caso delle comete l’apparizione di  un oggetto spettacolare è un chiaro invito a realizzare immagini spettacolari, anche a colori, dove si possono esaltare le diverse colorazioni della chioma e della coda, a seconda della componente (polveri o gas). Lo studio dell’inquadratura e congiunzioni con altri oggetti, o elementi dell’orizzonte in riprese a largo campo, possono dare spunti molto interessanti e suggestivi.

In questi casi elaborazioni mirate ad evidenziare la coda e le colorazioni daranno i risultati più spettacolari. Con un paziente lavoro di assemblaggio molti realizzano immagini con cometa e stelle puntiformi. Più affascinanti delle immagini disturbate dal lato estetico da lunghe tracce stellari.

Sulla media della comete, quelle non spettacolari, è anche possibile evidenziare con elaborazioni specifiche aspetti in qualche modo nascosti, soprattutto all’interno della chioma.  Apposite funzioni producono spesso risultati sorprendenti.

-        L’algoritmo denominato comunemente Larson-Sekanina, deriva da complesse tecniche fotografiche, rese semplicissime dal digitale. Permette di evidenziare variazioni di gradiente nella chioma e quindi disomogeneità anche di bassissimo contrasto. Uno strumento potente ma con alcune limitazioni. E’ distruttivo (ovvero non preserva l’informazione originale) e la sua interpretazione è ambigua. I risultati variano a seconda dei parametri impostati e del S/N dell’immagine.

-        Med Coma model. Crea una chioma media sintetica a partire dai valori reali dall’immagine. Molto potente per evidenziare anche minime disomogeneità. Non è distruttivo.

-        Radial Model. Mostra le differenze rispetto ad una chioma teorica che decresce di luminosità in modo inversamente proporzionale alla distanza dal nucleo. Non è distruttivo ed è riferito ad un modello matematico.

Altri approcci derivano dal Med Coma Model e dal Radial Model con risultati simili e un po’ più mirati. 

In tutte le situazioni si deve essere cauti nell’interpretazione diretta di ciò che appare. Ricordiamo che la chioma è un oggetto tridimensionale di forma spesso complessa e del tutto ignota a priori nei dettagli. E che ciò che avviene alla superficie del nucleo è collegato in modo assai complesso  e indiretto a ciò che avviene nella chioma. I getti sul nucleo hanno una scala molto piccola e non possono essere collegati direttamente a strutture a larga scala nella chioma esterna. Purtroppo con il digitale è facile evidenziare varie tipologie di strutture nelle chiome, ma ci si scontra poi con la difficoltà di dare delle interpretazioni fisicamente corrette. Ciò non toglie che in molti casi sia stato possibile correlare i cambiamenti morfologici con la rotazione del nucleo o con il suo asse di rotazione.

 

Fig. 9 -10 elaborazioni delle comete 2014 Q2 (Lovejoy) e C/2015 V2 (Johnson) effettuate da Mauro Facchini, Osservatorio di Cavezzo

E’ sempre sorprendente vedere quanti dettagli nascosti possono essere estratti da chiome evanescenti e a prima vista completamente omogenee. E vedere come da una cometa all’altra le cose possano variare nel tempo, anche per una stessa cometa.   

Una buona panoramica di elaborazioni è reperibile al sito dell’Osservatorio di Cavezzo, dove, non a caso, è nata pioneristicamente in Italia l’elaborazione digitale delle immagini cometarie. Le procedure sono ancora oggi oggetto di continuo perfezionamento e studio.

Al contrario di quanto può sembrare il piccolo mondo delle comete, popolato per lo più da oggetti  poco appariscenti, è davvero molto complesso, tanto che neppure molte missioni spaziali hanno permesso di svelarne tutti i segreti.   

 

5.Alcuni esempi di comete

Le immagini illustrano meglio di 1000 parole il fascino delle comete. Naturalmente quelle più spettacolari lasciano un segno indelebile nella memoria, regalando emozioni impagabili. Ma anche osservazioni di oggetti modesti o inattesi, a volte anche avventurose,  contribuiscono a rendere il panorama osservativo assai vario. Non è possibile rendere giustizia in queste poche pagine alla enorme varietà offerta dalle comete, dalle più spettacolari a quelle apparentemente più insignificanti. Cimentarsi nelle riprese offre spunti nuovi, oltre a darci una visione di oggetti a loro volta unici, sia perché destinati a non essere più riosservati su una scala di  tempo umana, sia perché anche le comete periodiche, nei loro ritorni, possono presentare sempre comportamenti e aspetti inattesi per la mutevolezza di carattere propria di questi oggetti, ma anche per le condizioni geometriche di osservazioni che raramente si ripetono allo stesso modo.    

Fig. 11 -Mosaico della coda della cometa C/2014 Q2 (Lovejoy) ottenuta il 24 gennaio 2015 da Mauro Facchini all’Osservatorio di Cavezzo

  

Fig. 12 - cometa C/2014 Q2 (Lovejoy)  ripresa da Rolando Ligustri il 20 febbraio 2015 (https://apod.nasa.gov/apod/ap150227.html)

 

Fig. 13 - La cometa periodica Hartley 2 ripresa il 7 ottobre 2011 da Rolando Ligustri https://apod.nasa.gov/apod/ap111007.html

 

Fig. 14 - Immagine cittadina della cometa C/2012 K1 (PanSTARRS) ottenuta con filtro R per scopi fotometrici

 

Fig. 15 - Altra piccola cometa, la C/2014 E2 (Jacques) ripresa da cieli cittadini.

 

Fig. 16 - P/2016 BA14 (PanSTARRS) è un piccolo frammento non più attivo, di circa 500 metri di diametro, proveniente dal nucleo della cometa 252P/LINEAR. La sua orbita sfiora quella terrestre e questo lo ha portato ad un incontro ravvicinato con il nostro pianeta. La minima distanza di 3,6 milioni di chilometri è stata raggiunta il 22 marzo. La foto è stata ripresa la sera del 18 marzo 2016 da Giannantonio Milani  quando il piccolo oggetto si trovava a poco meno di sei milioni di chilometri e, a causa della vicinanza,  aveva già un elevatissimo moto proprio. Media di 365 pose da 10 secondi con telescopio newtoniano da 15 cm f/4 + CCD Sbig 402 ME senza filtri.

Fig. 17 Cometa 1995 O1 (Hale - Bopp) fotografata dai Colli Euganei da Giannantonio Milani nella primavera del 1997 con un teleobiettivo da 135 mm f/3.5, pellicola Ektar 1000, usando un particolare filtro della Edmund che assorbe il verde, trasmettendo blu e rosso, usato per accentuare le colorazioni delle due code di gas e polveri. La foto è stata autografata da Tom Bopp il 6 maggio 1997 durante una cena organizzata dalla rivista "il Cielo".

A ricordo ora di Tom Bopp, scomparso il 5 gennaio 2018.

Fig. 18 Il caso eccezionale della cometa C/2006 P1 (McNaught) osservata in pieno giorno da Giannantonio Milani  utilizzando il cartello stradale che indica il Monte Grappa, poco prima della cima, per schermare la luce solare.

La cometa era distintamente osservabile ad occhio nudo e ben visibile al binocolo. Immagine ripresa attraverso il binocolo 20x80 mediante una piccola fotocamera digitale Olympus fe115 tenuta a mano sull'oculare.  La cometa subito dopo il passaggio al perielio è divenuta un oggetto straordinario nell’emisfero australe sviluppando una larghissima coda incurvata a ventaglio.

Fig. 19 - la cometa C/2011 L4 (PANSTARRS) ripresa da Padova la sera del 15 Marzo 2013.

L'osservazione è stata effettuata al crepuscolo quando il cielo era ancora chiaro e la cometa si trovava a pochi gradi al di sopra dell'orizzonte. E' stato utilizzato un telescopio 102ED/714 f/7 e camera CCD St7 + filtro R (Cosusins) e  sono state sommate 25 pose da 6 secondi. La cometa è stata osservata unicamente tramite camera CCD, mentre i tentativi di osservarla mediante un binocolo 20x80 sono risultati vani a causa della forte luminosità del cielo e della foschia all'orizzonte.  Le elaborazioni dell'immagine evidenziano asimmetrie e strutture sia nella chioma che nella parte iniziale della coda.


[1] Con il termine “rumore” viene indicato qualunque disturbo che si aggiunge al segnale dell’immagine o che lo modifica localmente. Il dark frame ed il bias si riferisce ad un rumore di tipo elettronico, il flat field mira a correggere invece difetti ottici e la disuniformità di risposta del sensore. Il trattamento e correzione dei rumori è particolarmente importante nelle immagini per uso scientifico.

[2] con questo termine di uso comune si indica il peggioramento dell’immagine legato alla turbolenza dell’atmosfera. Nell’osservazione visuale l’effetto è visibile come un “ribollimento” o intorbidimento dell’immagine, nelle riprese fotografiche a lunga posa provoca una perdita di risoluzione.

[3] La quantità Af[rho] è un indice indiretto della produzione di polveri. Una sfocatura o un peggioramento qualitativo delle immagini, anche dovuta al seeing, altera le misure soprattutto nelle finestre di misura di piccole dimensioni.

[4] La stima viene effettuata paragonando la cometa a fuoco con stelle sfocate di uguale diametro (metodo denominato “in-out” o di Sidgwick), o sfocando stelle e cometa (metodo di Bobrovnikoff).  Effettuare una buona stima non è facile. Occorre notevole esperienza di osservazione visuale e pratica strumentale.

[5] La calibrazione astrometrica, effettuata rispetto ad un certo numero di stelle di campo di posizione nota, definisce l’orientamento e la scala dell’immagine, permettendo di leggere e misurare la posizione di qualsiasi oggetto presente, anche ignoto come ad es. un nuovo asteroide, una nova o supernova, una cometa …

 

Metodo di calcolo del diametro di un cratere lunare dallo studio di una sua fotografia

Dott. Ing. Riccardo Fecchio
riccardofecchio78atgmail [dot] com


SOMMARIO

Scopo principale del presente articolo è mostrare come sia possibile calcolare le dimensioni dei crateri lunari a partire da una ripresa fotografica effettuata tramite telescopio Skywatcher Mak 127/1500 e camera di ripresa ZWO ASI 120MM Mini.

1 - Introduzione
La Luna è il nostro unico satellite naturale. Fonte di ispirazione e di riferimento per molte culture in ogni parte del mondo dall'antichità fino ai giorni nostri, ha fortemente infuenzato la vita dell’uomo, segnando in particolare l'agricoltura e la religione e dando impulso alla ricerca scientifica ma anche ispirando la poesia,
la letteratura, la fantascienza, il cinema.
La Luna, in base alla teoria attualmente più accreditata, si è formata dall’aggregazione di detriti di origine silicea derivanti dalla collisione di un grosso oggetto delle dimensioni prossime a quelle di Marte con la Terra circa 4,5 miliardi di anni fa. Anche se più piccola della Terra (circa ¼ del diametro terrestre), essa genera sul nostro pianeta un’importante influenza in quanto stabilizza l’asse di rotazione (la cui inclinazione determina il ciclo delle stagioni) ed è responsabile delle maree che si osservano in modo evidente ogni 6 ore.
Scopo principale del presente articolo è quello di mostrare come sia possibile, studiando una fotografia effettuata con telescopio, calcolare le dimensioni degli elementi della superficie lunare.

2 - Cosa è possibile osservare del nostro satellite?
Innanzi tutto è opportuno comprendere quali elementi della superficie lunare è possibile osservare dalla Terra.
La Luna mostra alla Terra (più o meno) sempre la stessa faccia perché è in rotazione sincrona con il nostro pianeta. Significa che fa un giro su se stessa esattamente nello stesso tempo che impiega a fare un giro completo intorno alla Terra (mese sidereo pari a poco meno di 27 giorni e 8 ore). Il risultato di questo moto coordinato è che l’emisfero lontano della Luna non ha mai la possibilità di trovarsi rivolto verso un osservatore terrestre. Affinché si verifichi questo fenomeno, chiamato "tidal locking", devono verificarsi due requisiti:
1. Il corpo più leggero deve orbitare lungo una traiettoria eccentrica e non circolare.
2. Il corpo più leggero non deve avere perfetta simmetria assiale: deve essere uno sferoide ed avere dunque tre momenti di inerzia differenti.
La luna rispetta entrambi i requisiti.

Guardando la Luna si notano zone più scure e zone più chiare. Osservando tali aree con i telescopi è possibile individuare, grazie al loro potere di ingrandimento, caratteristiche che ad occhio nudo sfuggono: si intravedono quindi montagne, altopiani, valli, fratture, bacini, pennacchi, crateri da impatto di asteroidi che, in assenza di atmosfera, hanno potuto raggiungere il suolo lunare senza ridurre la loro velocità, quindi la loro energia e in definitiva il loro potere distruttivo.
Gli altopiani, le zone più chiare, sono formati da calcio, alluminio, ferro e magnesio e rappresentano l’85% dell’intera superficie lunare, il 70% di quella visibile. Sono considerate le aree più antiche della Luna (4,5-4 miliardi anni). Le rocce che li costituiscono sono l'anortosite e la norite.
I mari e i bacini circolari sono zone depresse formate da lava basaltica e si presentano come macchie lisce di colore più scuro. Costituiscono il 15% dell’intera superficie lunare e rappresentano le regioni geologicamente più recenti della Luna, risalenti a 3-2,5 miliardi di anni fa.
Si riporta di seguito un'immagine generale dei mari lunari.
 
Figura 1 Lunar Maps – Howard L. Cohen

Figura 1 Lunar Maps – Howard L. Cohen - click per ingrandire

Per riprendere quanto osservato tramite telescopio è necessario “accoppiare” al telescopio stesso non il classico oculare ma macchine fotografiche quali le comuni reflex o camere di ripresa che usano in alcuni casi lo stesso tipo sensore CMOS oppure sensori di tipo CCD.
 
Figura 2 I due tipi di sensori: CCD e CMOS
Figura 2 I due tipi di sensori: CCD e CMOS - click per ingrandire

Di seguito si spiegano alcuni concetti base, necessari per la comprensione del metodo adottato per il calcolo delle dimensioni degli elementi lunari fotografati.

3 - Concetti base: sensori di immagine digitali


3.1 Acquisizione dell’immagine

I sensori di immagine delle camere digitali trasformano un segnale elettromagnetico composto da fotoni, che arrivano dall’oggetto osservato con il telescopio, in un segnale elettrico proporzionale alla radiazione incidente questo fenomeno viene chiamato effetto fotoelettrico. Per fare questo i sensori sono formati da fotodiodi disposti a matrice di norma rettangolare, chiamati comunemente pixel (picture element). Opportuna circuiteria integrata traduce il segnale analogico in digitale, lo amplifica e lo memorizza, consentendo di poter successivamente ricostruirlo grazie all’utilizzo di software dedicati allo scopo.

3.2 Analisi del campo visivo fotografato

Cerchiamo di capire qual è il campo visivo inquadrato e come varia in funzione della configurazione telescopio-camera di ripresa utilizzati per riprendere un’area della volta celeste.
Si prenda a riferimento lo schema ottico qui sotto (Figura 3) che rappresenta quello del telescopio a mia disposizione, un Maksutov-Cassegrain. Da sinistra giungono i raggi dell’oggetto inquadrato, passano attraverso una lente correttrice, arrivano allo specchio primario che riflette verso il secondario (applicato sul retro della lente correttrice) che porta il fuoco dove si vede il puntino rosso e dove è posta la camera di ripresa.
Il percorso che compie la luce dal piano di ingresso al punto di fuoco si chiama lunghezza focale.
 
Figura 3 Schema ottico del telescopio Maksutov-Cassegrain
(Astronomical Optics - Bruce MacEvoy)

Figura 3 Schema ottico del telescopio Maksutov-Cassegrain - click per ingrandire

La configurazione da me adottata vede il telescopio del diametro di 127 mm con una lunghezza focale di 1500 mm e una camera di ripresa (ASI120MM) il cui sensore ha una matrice di 1280 pixel x 960 pixel da 3,75 micrometri di lato, che portano ad avere un sensore largo 4,8 mm e alto 3,6 mm.
È possibile calcolare il campo visivo, detto in gergo FOV=Field Of View), che questa configurazione dà applicando la equazione [1].

equazione 1

Il FOV è risultato pari a 0.18°x0.14°, circa un terzo del diametro apparente della Luna che è di circa 0.5°.
Se si vuole aumentare il FOV è necessario ridurre la focale del telescopio oppure aumentare le dimensioni del sensore.
Mantenendo fissa la camera di ripresa, e quindi il sensore, vediamo di seguito come varia il FOV in un’immagine simulata con due diverse configurazioni (si veda Figura 4):

    Configurazione base del mio telescopio (riquadro rosso), → FOV 0.18° x 0.14°
    Configurazione con telescopio con focale dimezzata da 750 mm  (riquadro giallo) → FOV 0.37° x 0.27°
 
Figura 4 First Light Optics
(https://astronomy.tools)
Figura 4 First Light Optics - click per ingrandire

Quello che ci mostra l’immagine sopra è che è possibile variare il FOV modificando la focale del telescopio a parità di dimensione di sensore.
C’è un altro fattore però che viene influenzato ed è la risoluzione angolare espressa in secondi d’arco per pixel [“/px]. Il simbolo “ indica il secondo d’arco che rappresenta la 3600ma parte del grado.
La risoluzione angolare rappresenta il campo inquadrato da un singolo pixel o, in termini più pratici, le dimensioni angolari più piccole che un pixel può inquadrare. La risoluzione angolare è funzione inversamente proporzionale della focale dello strumento e del numero di pixel del sensore, mentre è direttamente proporzionale alle dimensioni in mm del sensore, come si vede dalla equazione [3] riportata di seguito.

equazione 3

K = 206265 → fattore di conversione da radianti [rad] ad arco secondi[“]
Si nota infatti che con la configurazione 2 sebbene si possa inquadrare il doppio del FOV rispetto alla configurazione 1, a parità di grandezza di sensore, si avrà una risoluzione angolare minore, dove minore significa minore capacità di discretizzare dettagli.
Nella configurazione 1 infatti la risoluzione angolare è di 0.52"x0.52" per pixel contro i 1.03"x1.03" per pixel della configurazione 2.
Per contro, se voglio mantenere la risoluzione angolare della configurazione 1 avendo un FOV della configurazione 2, mantenendo la focale di 1500 mm, devo necessariamente avere un sensore con più pixel.
Di seguito si riporta una tabella riassuntiva degli esempi appena fatti.

Tabella 1 – Riepilogo caratteristiche delle due configurazioni analizzate

Focale
[mm]
Dim. Sensore
[px]
FOV
[°]
Risoluzione
[“/px]
 1500 1280x960 0.18°x0.14° 0.52"x0.52"
 750 1280x960 0.37°x0.27° 1.03"x1.03”
 1500 2560x1900 0.37°x0.27° 0.52"x0.52"

4 - Esempio pratico: calcolo della dimensione di un cratere lunare
Una volta introdotti alcuni concetti di base, di seguito si riporta un esempio pratico di come è possibile utilizzarli per calcolare le dimensioni di un cratere conoscendo le caratteristiche di una foto.
La seguente ripresa fotografica è stata effettuata con il telescopio nella configurazione 1 ovvero con focale di 1500 mm e il sensore da 1280*960 pixel delle dimensioni di 4,8mm x 3,6mm. Con questa configurazione la risoluzione angolare è, come si è visto nei precedenti paragrafi, di 0.52"x0.52" per pixel.

Figura 5 Foto superficie lunare catturatada Fecchio Riccardo il 20/12/2020
Figura 5 Foto superficie lunare catturata da Fecchio Riccardo il 20/12/2020 - click per ingrandire
La ripresa fotografica riportata in 5 mostra il "Mare Nectaris" della Luna, il mare principale che si vede nella metà superiore della foto. Sopra il Mare Nectaris ci sono tre crateri, più o meno delle stesse dimensioni: partendo da quello a ore 12 chiamato Theophilus, al cui interno si nota un pennacchio, si individuano successivamente, in senso antiorario, Cyrillus e Catharina. A circa ore 9 del Mare Nectaris si nota il bacino Fracastorius.
Usando il programma di grafica opensource (GIMP), o ricorrendo ad altri software similari, è possibile ricavare il diametro in pixel del cratere Theophilus. La dimensione del diametro del cratere è di circa 84 px.
Moltiplicando il diametro in pixel per la risoluzione angolare di 0.52"/px si ottiene il valore di circa 44”, ovvero l'angolo in secondi d'arco sotto cui il sensore vede il cratere, angolo che chiameremo (α).
Per conoscere il diametro del cratere in Km è sufficiente applicare la formula trigonometrica del triangolo rettangolo secondo cui la misura di un cateto è data dal prodotto dell’ipotenusa per il seno dell’angolo opposto.

Figura 6 Rappresentazione grafica dell’angolo α sotto cui viene visto un cratere di diametro D alla distanza d
Figura 6 Rappresentazione grafica dell’angolo α sotto cui viene visto un cratere di diametro D alla distanza d - click per ingrandire


Dalla figura 6, in prima approssimazione, si ha che il cateto è metà diametro del cratere (D/2), l’ipotenusa è la distanza Terra-Luna (d) e l'angolo opposto a D/2 è la metà di quello sotto cui il sensore “vede” il cratere (α/2). Applicando quindi la formula:

equazione 4

Da cui D=2*393000*sen(0.00611), con α espresso in gradi e d in km.

Si ottiene quindi una misura di 83.8 Km non molto in linea con il valore ufficiale della International Astronomical Union (IAU) pari a 98.6 Km (errore del 13%).

5 - Analisi dell’errore: confronto tra teoria e pratica

L’errore ottenuto così alto è dovuto principalmente alla differenza tra i valori teorici della risoluzione angolare ricavati dalla formula (3) e quelli reali funzione della vera configurazione del treno ottico usato per la foto.
Proviamo dunque a vedere quale è effettivamente la separazione angolare facendo una sorta di taratura, ovvero una verifica pratica, empirica, sperimentale, per determinare di quanto si scosta il valore pratico da quello teorico.
Prendiamo ad esempio la foto (Figura 7) della “grande congiunzione” tra i due giganti gassosi Saturno e Giove. Non è di grande qualità è volutamente sovraesposta e modificata nei livelli del bianco e nero per evidenziare i 4 satelliti di Giove (Io, Europa, Gamimede e Callisto) e il contorno dei pianeti.
 
Figura 7 Foto di Saturno e Giove con i suoi 4 principali satelliti
Figura 7 Foto di Saturno e Giove con i suoi 4 principali satelliti - click per ingrandire

Prima di procedere oltre dobbiamo necessariamente fare una piccola premessa; quando guardiamo la volta celeste stiamo osservando gli oggetti celesti (stelle, pianeti, comete, ecc.) proiettati su di una superficie che non è piana come ci sembra, ma è sferica. Non possiamo utilizzare formule geometriche come se questi oggetti fossero disposti su un piano, dobbiamo utilizzare le formule della trigonometria sferica alle quali rimandiamo in testi specifici.
Per fortuna, per conoscere la distanza angolare tra due oggetti celesti, ci viene in aiuto il software “Stellarium”. Stellarium è un planetario gratuito Open Source che mostra un cielo in 3D proprio come si vedrebbe a occhio nudo, con un binocolo o un telescopio. Il software fornisce importanti informazioni relative agli oggetti osservati e tra le varie di funzioni tra cui la misura della separazione angolare tra due oggetti. Quindi, dati due oggetti, nel nostro caso Giove e Saturno, possiamo misurarne con “Stellarium” la loro separazione angolare utilizzando lo strumento “righello” come mostrato nella foto 8.

 
Figura 8 Screenshot di Stellarium con l’uso dello strumento righello per il calcolo della separazione angolare tra Giove e Saturno
Figura 8 Screenshot di Stellarium con l’uso dello strumento righello per il calcolo della separazione angolare tra Giove e Saturno - click per ingrandire

Otteniamo un valore di 9’ 20.08” che trasformati in arcosecondi danno circa 560”.

Calcoliamo ora il valore dei pixel che separano Saturno da Giove usando come strumento sempre il righello del software GIMP (vedi fig. 9). Il software ci restituisce un valore di 888.5 px.


Figura 9 Misurazione della separazione in pixel con lo strumento righello del software GIMP
Figura 9 Misurazione della separazione in pixel con lo strumento righello del software GIMP - click per ingrandire

Mettiamo dunque a rapporto i due valori di separazione angolare in arcosecondi trovati con Stellarium [“] e la separazione in pixel [px] trovati con GIMP e troveremo l’effettiva risoluzione angolare del nostro treno ottico [“/px].

Risoluzione angolare = 560 ” / 888.5 px = 0.630 “/px

Ecco dunque che il cratere non lo vediamo più sotto un angolo di:

Risoluzione
angolare teorica
Diametro
Cratere
Angolo teorico
Cratere (α)
0.52 ”/px84 px44 “

ma di

Risoluzione
angolare teorica
Diametro
Cratere
Angolo teorico
Cratere (α)
0.630 ”/px
84 px52.94 "

Inserendo il nuovo valore di 52.94” nella formula (4):

D=2∙393000∙sen(0.007352)=100.86 km

Otteniamo un cratere dalle dimensioni stimate di 100.86 km ovvero un valore con un errore per eccesso di appena il 2,2% rispetto ai 98.6 km ufficiali.

6 - Conclusioni
Ogni misurazione si porta dietro errori di vario tipo. La della teoria degli errori nelle misurazioni è un argomento molto vasto e trattato addirittura all’università con esami dedicati ed esula dallo scopo di questo articolo.
Nell’esempio di questo articolo abbiamo visto come l’utilizzo del valore di risoluzione angolare del treno ottico telescopio-camera di ripresa, ottenuto attraverso un calcolo teorico e non sperimentalmente, possa portare ad errori anche molto alti.
La verifica sperimentale della risoluzione angolare ha anch’essa portato ad errori, ma molto più bassi, quasi di un ordine di grandezza rispetto al calcolo teorico, poiché è stata ricavata indirettamente usando una separazione angolare nota tra due oggetti e dividendola per i pixel che li separavano nella foto.
Ad ogni modo con questo articolo ho voluto dimostrare come è possibile divertirsi, con conoscenze di scuola secondaria, con mezzi poco sofisticati e dal balcone di casa, a calcolare le dimensioni di un cratere di 100 km di diametro ad una distanza circa 4000 volte maggiore, che equivale a voler calcolare il diametro di una moneta di 1 € posta alla distanza di 90 m.

Bibliografia
[1]    Howard L. Cohen “Lunar Maps For Use with the Astronomical League Lunar I Observing Program” - Revised 2012 September 20 - Published by Howard L. Cohen Gainesville, Florida
[2]   Astronomical Optics - Bruce MacEvoy
[3]   https://astronomy.tools
[4]    International Astronomical Union (IAU) Working Group for Planetary System Nomenclature (WGPSN)

Misura del raggio terrestre secondo il metodo di Eratostene

VADEMECUM SULLA MISURA DEL RAGGIO TERRESTRE SEGUENDO IL METODO DI ERATOSTENE


Premessa:

Eratostene da Cirene fu il direttore della biblioteca di Alessandria d'Egitto durante il III secolo a.C. e ideatore del metodo di calcolo che porta il suo nome e relativo alle dimensioni della Terra. Eratostene era anche un geografo, un astronomo e un matematico. Secondo i suoi studi, durante il solstizio d'estate nella città di Syene (oggi Assuan), proprio perché molto prossima al tropico del Cancro, al passaggio al meridiano il Sole si trovava allo zenit e pertanto poteva osservare che il fondo di un pozzo profondo riusciva ad essere illuminato. Questo significava che i raggi arrivavano perpendicolari al terreno e che uno gnomone (ovvero un bastone piantato verticalmente in un terreno pianeggiante) non avrebbe proiettato alcuna ombra per terra. Ad Alessandria d’Egitto però, sempre al passaggio al meridiano del Sole durante il solstizio d’estate, questo fenomeno non accadeva mai e gli obelischi proiettavano sul terreno sempre e comunque un minimo la loro ombra. I due fenomeni erano quindi la dimostrazione diretta del fatto che la Terra ha una forma sferica. Vedi sotto l’esplicitazione grafica di quanto sopra esposto (Figura 1).

 

Eratostene - figura 1
Figura 1

Eratostene era a conoscenza della distanza (D) tra Alessandria d’Egitto (A) e Syene (S) e ricavò (con strumenti e metodi disponibili all’epoca) l’angolo α con cui i raggi solari arrivavano ad Alessandria d’Egitto (A) e di conseguenza anche l’angolo al centro della Terra sotteso dalla curva D e compreso tra i due raggi terrestri. Con i dati in suo possesso e le conoscenze geometriche note all’epcoa, poté determinare la dimensione del raggio terrestre. Di seguito viene riportata la proporzione per esplicitare in maniera matematica il concetto.

Calcolo del raggio terrestre sostituendo le due città egiziane con due città italiane

Voglio pertanto ripetere l’esperienza di Eratostene facendo le misure in luoghi di osservazione in Italia posti a Padova (A) e in provincia di Lecce (B).
La latitudine del luogo osservazione a Padova (punto A) è 45.4332° N (45° 26' 3.38" N) mentre la latitudine del luogo osservazione in provincia di Lecce (punto B) è 39.9338° N (39° 56' 1.761" N).

La figura 2 qui sotto riprende il concetto e il procedimento seguito da Eratostene per calcolare la dimensione del raggio della Terra adattato alle due località italiane.

Eratostene - figura 2

Figura 2

 

Se D è la distanza tra i due punti di osservazione lungo lo stesso meridiano, il raggio terrestre R, si ricava facilmente dalla proporzione seguente:

In termini matematici, con riferimento ai simboli della figura 3 qui sotto, per calcolare l’angolo con cui i raggi solari arrivano alla latitudine di un luogo uso la formula:

Eratostene - figura 3

Figura 3

 

 

La misurazione viene condotta:

  1. considerando la Terra esattamente sferica;
  2. considerando il Sole posto a distanza tale da poter ritenere i raggi che arrivano sui punti di osservazione A e B siano paralleli;
  3. sapendo che le due città italiane considerate si trovano in diversi meridiani (esse differiscono in longitudine di 7°) differentemente da quelle usate da Eratostene ovvero Alessandria d’Egitto e Assuan il cui scarto in longitudine era di 3°. Quindi sapendo che il Sole nel moto apparente culmina a sud prima nei luoghi che sono più a est rispetto a quelli che seguono, la misura dell’ombra deve essere condotta quando, in entrambi i luoghi, il Sole è al meridiano ovvero quando il Sole è a sud e raggiunge pertanto il punto massimo di elevazione, parametro quest’ultimo che è funzione della latitudine del luogo. Per fare questo si deve conoscere l’ora del passaggio al meridiano delle singole località che segue la nota “Equazione del tempo” (es.: https://eratostene.vialattea.net/astrocalc/sole1.html)
  4. La distanza misurata con Google Maps lungo il meridiano punto A e la corrispondente latitudine del punto B lungo lo stesso meridiano del punto A è di 612 Km (vedi figura 4 qui sotto).

Eratostene - figura 4

Figura 4

Per ridurre l’errore della misura dell’ombra è preferibile usare un’asta o un bastone rigido abbastanza lungo (1-2m) e usare il filo a piombo per garantire che esso rimanga esattamente perpendicolare al terreno durante la misurazione. Il terreno su cui si esegue la misura deve essere piano.

Conclusioni:

L’errore commesso è molto piccolo ed è ampiamente accettabile se si pensa che ho usato scope e ombrelloni da spiaggia come gnomoni, cercato la perpendicolarità con un filo a piombo e misurato distanze con il metro da muratore e gessetti.

Lo scopo dell’esperienza va ben oltre la ricerca della perfezione del calcolo. Lo scopo dell’esperienza è quello di coinvolgere curiosi, semplici appassionati di astronomia ma soprattutto studenti delle scuole medie di secondo grado, mostrando loro che sin dai tempi di Aristotele si era a conoscenza della forma sferica della Terra. Grazie a questa esperienza è possibile coinvolgerli nell’assimilare concetti semplici facendo eseguire loro semplici calcoli seppur riguardanti il raggio del nostro pianeta.

 

Per qualsiasi domanda, chiarimento, integrazione o segnalazione di errori contattatemi pure tramite l’associazione o direttamente all’indirizzo e-mail: riccardofecchio78atgmail [dot] com

BUON DIVERTIMENTO

Riccardo

AllegatoDimensione
Eratostene per AAE.pdf913.17 KB

> Fai da te

Sezione dedicata all'astro-brickolage.

Ovvero come costruirsi strumenti e accessori oppure effettuare lavori di manutenzione alla propria strumentazione.

Il mio dobson: breve storia di autocostruzione.

a cura di Michele Peruzzo



Dopo aver fatto la mia "gavetta" con il classico Newton da 114 ed essere passato per l'altrettanto classico Schmidt-Cassegrain da 8", cominciai a focalizzare i miei obiettivi: la fotografia non mi interessava più di tanto ed i pianeti e la luna erano solo il contorno occasionale al mio vero interesse che era l'osservazione visuale del cielo profondo. Ma volevo qualcosa di più dalla mia strumentazione.

Per fare un deciso salto di qualità dovevo puntare tutto sul diametro del mio nuovo strumento ma mi resi però subito conto che questo comportava alcuni problemi:

  • gli ingombri; in casa avrei avuto serie difficoltà a trovare lo spazio per uno strumento a tubo di 30/40 cm di diametro e la sua montatura
  • la trasportabilità; le mie osservazioni non le faccio mai da casa dato che abito in un quartiere di Teolo maledettamente "inquinato" dal punto di vista  luminoso e devo sempre spostarmi
  • i costi; anche per un semplice strumento "commerciale" di questa misura, sarebbero stati molto elevati.

L'unica strada che mi rimaneva era il Dobson, ma non avevo ancora l'idea di costruirmelo.

Questa mi venne quando, vagliando le varie offerte di strumenti nuovi ed usati che si trovano in Internet, parlai con un astrofilo di Brescia, il quale mi mise a conoscenza che dalle nostre parti, in provincia di Padova, abitava un tale che costruiva ottiche. Mi misi in contatto con questo signore, Giacometti Fausto di Tribano, che si dimostrò subito una persona fantastica e che mi stupì, oltre che per la sua disponibilità, anche per la sua inventiva e abilità.

Cominciò così la mia avventura.

Internet è stato di fondamentale importanza. Si trovano decine di siti (purtroppo poco o nulla in Italiano) che trattano l'argomento con progetti e foto molto dettagliati. Facendo un riassunto di tutte queste idee cominciò a nascere il progetto del mio Dobson che doveva rispondere soprattutto alle esigenze di trasportabilità e velocità di assemblaggio.

Sono sincero, l'idea all'inizio mi spaventava un pò. Ero conscio del fatto che la costruzione doveva essere portata avanti con la massima cura e precisione, e non sapevo se le mie competenze tecniche e i miei mezzi sarebbero stati sufficenti per portare a termine degnamente un tale progetto. La mia paura era di "impantanarmi" nell'eseguzione dei vari lavori e di dovere un giorno buttare via tutto fallendo miseramente anche perchè, conoscendomi, sapevo anche che non avrei mai accettato un risultato finale "così così". A volte facevo fatica a prendere sonno la sera passando e ripassando mentalmente le varie fasi della lavorazione, cercando di immaginare gli eventuali problemi e la maniera per risolverli.

Il "parto" è durato più di un anno, gran parte del quale passato aspettando lo specchio che il caro Giacometti mi stava preparando nonostante i suoi mille impegni. Con mio suocero, falegname di vecchio stampo, ho fatto tutta la parte in legno e il mio garage si era trasformato in un'officina meccanica. Ho anche dovuto acquistare dell'attrezzatura indispensabile: maschi e filiere per filettare, una colonna per forare con il trapano e poi frese e punte varie, lime, calibri ecc. ecc..
Le non poche parti metalliche su misura, le ho commissionate ad una officina di tornitura, altre minuterie o boccole varie, le ho invece prelevate dal mio magazzino dove lavoro.

Sono stato anche fortunato a trovare, di seconda mano, il computer per il puntamento passivo della Lumicon "NGC SkyVector", che ho adattato al mio dobson e che funziona perfettamente.
Ora che finalmente l'ho quasi finito e manca solo una bella verniciata di nero opaco, ne sono molto orgoglioso. Si, tutto è perfettibile, ma la soddisfazione di osservare il cielo con uno strumento fatto da se non ha eguali e vedo che è molto apprezzato anche da astrofili più smaliziati di me.

Vorrei anche sfatare il fatto che uno strumento di tale apertura dalle nostre parti non sia sfruttabile, come mi dicevano in molti, necessitando di cieli assolutamente bui.
Forse in parte è vero, ma forse è anche vero che  ".....l'apertura logora chi non ce l'ha....".

Concludendo, vorrei ringraziare Fausto Giacometti per la fattiva collaborazione che è andata ben al di là del normale rapporto cliente-fornitore, aiutandomi con preziosi consigli e fornendomi, oltre allo specchio primario e secondario (tra l'altro ottimamente riusciti) anche altri materiali come i tubi di alluminio, la raggiera porta specchio secondario e il focheggiatore seminuovo.
Inoltre un grazie a mio suocero per il tempo dedicatomi e a mia moglie per la pazienza e la comprensione.

 Dati tecnici:

  •  Schema ottico Newton
  •  D 406mm    
  •  F 1750mm    
  •  f 4,3
  •  Configurazione Dobson a traliccio smontabile
  •  Movimenti su perni di acciaio diam. 20 mm e boccole in nylon
  •  Frizione registrabile su entrambi gli assi con dischi e pattini in Teflon e cuscinetti reggispinta
  •  Computer di puntamento passivo Lumicon NGC SkyVector con encoder ad alta risoluzione
  •  Focheggiatore tipo Crayford da 2"
  •  Cella primario a 18 punti d'appoggio flottanti su piastra registrabile
  •  Cercatore TeleVue Qwik-Point

 Alcune fotografie: (selezionare immagine per ingrandire)

Foto  1 - Il Dobson smontatoFoto  2 - Lo specchio, i morsetti di alluminio per il fissaggio dei tubi e, piu' sotto, le calamite per supportare e bloccare le antine di protezione che si intravedono a destraFoto  3 - Inizia il montaggio con l'inserimento dei tubi, notare l'asola aperta che si forma al vertice dei tubi una volta che questi sono nella loro sede.           Questo mi permette in un attimo e senza l'aiuto di nessuno di fissare la parte porta secondario, che ha dei prigionieri che cadono esattamente dentro le asole.Foto  4 - Si appoggia la parte superiore con il secondario e si fissano i pomelliFoto  5 - In 5 minuti si e' pronti per osservare, qualche minuto in piu' per la collimazione con il laser e per collegare gli encoder del computer per il puntamento assistito.Foto  6 - Non potevano mancare due manici con delle ruote all'estremita' i quali mi permettono di spostare agevolmente il dobson, che non scherza come peso. Foto  7 - D'obbligo pure un telo spesso e nero per limitare le luci parassiteFoto  8 - La parte inferiore con i tre pomoli per la collimazione, sotto al centro il pomolo per regolare la frizione sull'asse di azimuth. Si intravede all'interno del foro centrale della piastra di supporto del primario, uno dei vertici dei 6 triangoli che fungono da base flottante allo specchio.Foto  9 - Il bilanciamento del peso, non e' la parte piu' riuscita di questo strumento. Ho in parte ovviato con un sistema a molle di durezza diversa messe in trazione da un cavo di acciaio opportunamente rinviato da alcune pulegge.Foto 10 - Particolare dello spessore del disco di teflon (la parte bianca) per la frizione sull'asse di altitudine.Foto 11 - La parte "elettronica" con l'encoder dell'asse di altitudine e il computer della Lumicon sul vassoio portaoculari.

luglio 2006

La storia continua su

Il mio dobson: Parte II

a cura di Michele Peruzzo


Ricordate la storia della costruzione del mio primo Dobson? 

Il vecchio dobson

http://www.astronomia-euganea.it/drupal/content/il-mio-dobson-breve-storia-autocostruzione

Era l’estate 2006 e da allora molte stelle sono passate sopra le nostre teste e molte cose sono cambiate. Ora faccio anche fotografia astronomica ma la passione per l'autocostruzione non è mai passata.

Dopo aver usato lo strumento un paio d’anni  apprezzandone soprattutto la superba qualità ottica,  cominciai a non essere  più soddisfatto della montatura. Il bilanciamento e la fluidità dei movimenti, essenziali per poter  godere appieno delle stupende visioni che un diametro simile può regalare, non erano mai all’altezza costringendomi a continue correzioni per tenere l’oggetto nel campo dell’oculare , e questo, soprattutto  nelle serate pubbliche con decine di persone in coda per osservare, mi era diventato ormai insopportabile.  

Che fare? Modificarlo? Buttare tutto e ricostruirlo da zero? La cosa mi spaventava un po’.  Decisi come primo intervento di eliminare i perni dal movimento in altezza per passare ai semicerchi che sono più adatti  per dobson di questa mole e, aiutato dall’amico Paolo che lavora in una falegnameria con macchine a controllo numerico, ho apportato questa prima modifica e la situazione migliorò notevolmente.

dobdriver II

Nel frattempo però un altro tarlo mi rodeva: volevo motorizzarlo.  

L’unica soluzione per strumenti auto costruiti come il mio è questa http://www.tech2000astronomy.com/dobdriver/

io scelsi il modello DDR2-SYS con trasmissione a  cinghia per l’altitudine e lo installai così

dobdriver intallato      

I primi risultati purtroppo non furono lusinghieri: il movimento in azimuth funzionava bene ma in altitudine c’era troppo peso in gioco e i cuscinetti in teflon dove ruotano i semicerchi, perfetti per il movimento manuale perché facevano la giusta frizione, opponevano troppa resistenza e il motore non riusciva a muovere lo strumento.Dovevo alleggerirlo e creare dei movimenti molto più fluidi.

cella

 

Nacque così il mio secondo dobson.

Del vecchio salvai, ovviamente, gli specchi, il supporto del secondario, e poche altre cose,  come la cella del primario che però subì una drastica cura dimagrante.

 

Le parti in legno sono state completamente  rifatte. Ridisegnate e tagliate con una precisione  al decimo di millimetro, utilizzando vari spessori   per abbattere il peso il più possibile.

 

pezzi

 

  

   Al posto dei pattini in teflon ho usato delle pulegge con cuscinetti a sfera e questo rende il movimento in altitudine leggero come una piuma

 

     pulegge

 

 

 

 

 

 

 

new

 

 

 

 

 

 

  

 

 Da allora non l’ho più modificato, l’ho solo verniciato per renderlo più “elegante”: cosa si può pretendere di più per l’osservazione visuale? E’ uno strumento che si smonta e una persona lo può gestire e trasportare in un’auto media, si monta in pochi minuti, ha un sistema di puntamento passivo che non sbaglia un colpo ed ora ha anche dei motori che, usati a dovere, tengono gli oggetti nel campo anche a 200/300 ingrandimenti.

 

   Secondo me il massimo!

 

 

Un ringraziamento a Paolo Tasca per il decisivo aiuto e supporto, e un plauso alla Tech2000 http://www.tech2000astronomy.com/ che senza battere ciglio e gratuitamente mi ha sostituito un motore che aveva dei problemi.

 

Michele Peruzzo

 

Alcuni dettegli del dobson

 

frizione azimuth

 

 

  La frizione ed il motore in azimuth

 

 

 

 

 

 

 

 

motore

 

 

Il motore di altitudine col sistema per

tendere la cinghia

 

 

 

 

 

 

 

impianto

  l'impianto elettrico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sotto

 

 

la base vista da sotto

 

 

 

 

 

 

 

 

lato

 

 

 

  la base completa

 

 

Collimazione di un telescopio Newton

a cura di Giannantonio Milani



Quando utilizziamo un telescopio è molto importante che le sue componenti ottiche (specchi e/o lenti) siano correttamente montate e collimate.
Può accadere che un ottimo telescopio sembri un classico fondo di bottiglia a causa degli specchi non correttamente collimati o montati. Vediamo come fare nel caso del classico telescopio di tipo newtoniano, concettualmente il più elementare e quello che in generale si mostra più versatile per un uso amatoriale.

Lo schema ottico è molto semplice: uno specchio primario a profilo parabolico focalizza la luce proveniente dall'infinito (raggi paralleli) un punto che si trova lungo l'asse ottico detto fuoco. (fig.1- schema ottico newton)

Fig 1 - Schema ottico Newton

L’utilizzo degli specchi elimina tutti i problemi di cromatismo (tipici dei telescopi rifrattori) ma comporta comunque altre aberrazioni residue.
Poiché la parabola ha un solo asse di simmetria, l'immagine sarà “perfetta” solo in corrispondenza dell'asse ottico, allontanandosi da questo avremo un progressivo peggioramento con la comparsa di aberrazioni nelle immagini (principalmente il coma, ovvero stelle allungate che richiamano la forma di una cometa, e curvatura di campo).
Fortunatamente le immagini stellari rimangono sostanzialmente puntiformi in una zona relativamente ampia e comunque, salvo casi particolari, compresa nel campo inquadrato dall'oculare e le deformazioni visibili al bordo sono più spesso dovute allo stesso oculare.
A questo proposito è bene sottolineare che anche la qualità dell’oculare ha il suo peso nella resa complessiva dello strumento. Le aberrazioni al di fuori dell’asse ottico sono critiche sopratutto negli strumenti più luminosi e diventano meno importanti nelle focali più lunghe (ricordiamo che la luminosità è definita dall'apertura relativa è il rapporto tra lunghezza focale e diametro dello specchio primario).

Nel telescopio di tipo newtoniano prima del fuoco è posto uno specchio secondario piano (a sezione ellittica) inclinato a 45°, che rimanda di lato l'immagine, consentendo l'osservazione in una posizione laterale rispetto al tubo e che non interferisce con il cammino della luce. La presenza dello specchio secondario, che si trova lungo il cammino ottico, comporta una perdita di luminosità.
Tuttavia inizia a diventare penalizzante se questo ha dimensioni relativamente grandi rispetto allo specchio primario (maggiori di un decimo del diametro del primario), non tanto per la perdita di luce, ma per le conseguenze su risoluzione e contrasto.
Lo specchio primario dovrebbe essere sempre montato su di una cella regolabile, e lo stesso vale per il secondario, che è sorretto all'interno del tubo da una crociera (un supporto generalmente realizzato con 3 o 4 lamine, ma esistono numerose varianti). Ricordiamo che specchi e lenti non vanno MAI stretti, ma che deve rimanere un piccolissimo gioco (2-3 decimi di millimetro) che consente agli elementi ottici e alle celle di adattarsi liberamente alle variazioni di temperatura.
Uno specchio o lente “stretto” inevitabilmente si deforma, con la conseguenza di un peggioramento nella qualità delle immagini. Allo stesso modo uno specchio incollato potrebbe subire delle tensioni e deformarsi.

Per procedere all'allineamento degli specchi dovremo realizzare un piccolo semplicissimo accessorio che ci sarà di grande aiuto.

L'equipaggiamento minimo è infatti dato da un tubetto collimatore: un tubetto da inserire al posto dell'oculare con un piccolo foro centrale (circa 4-5 mm).
Un dischetto di carta bianca (ovviamente forato) con una croce disegnata, posto dalla parte interna del tubetto, rivolta verso lo specchio, che ci aiuterà a vedere attraverso il nostro collimatore la sua immagine riflessa dagli specchi.

Per realizzarlo si possono ad esempio utilizzare i barattolini che contengono le pellicole fotografiche da 35 mm, facilmente perforabili e che normalmente hanno già un diametro di 31,8 mm, uguale a quello degli oculari. (vedi in fig.2 l’esempio realizzato da Davide Favaro).

Fig. 2 - Collimatore

Oppure se avete un vecchio oculare rovinato che non usate più è sufficiente togliere le lenti e adattarlo a collimatore.
Se vogliamo essere più tecnologici potremo utilizzare un collimatore laser, che si rivela molto comodo soprattutto per i controlli notturni sul campo con strumenti portatili.
E’ conveniente segnare con un pennarello indelebile, o un piccolo bollino adesivo, il centro dello specchio primario.
Questo non interferisce con il cammino ottico della luce (è occultato dall’ostruzione dello specchio secondario) e vedremo che sarà fondamentale per una corretta collimazione in quanto indica con precisione il punto nel quale passa l’asse ottico.

Ed ecco le fasi della collimazione

  1. Centratura del secondario all'interno del tubo
    La prima operazione è verificare la posizione dello specchio secondario. L'asse della cella che lo sostiene, e la crociera che lo sorregge, devono essere centrati all'interno del tubo.
    Per specchi di piccola apertura relativa (maggiore di 8) sarà generalmente sufficiente centrare lo specchietto rispetto al tubo, ma con focali relative più corte il secondario deve essere leggermente decentrato per intercettare correttamente il fascio di luce fortemente convergente che arriva dallo specchio primario.
    In uno strumento correttamente progettato il secondario dovrebbe essere già decentrato nella giusta misura rispetto all’asse ottico e alla crociera. L'entità del decentramento dipende dalle dimensioni dello specchio, dalla focale relativa e da quanto esterno è il fuoco rispetto al tubo (a livello indicativo per un telescopio f/4 grosso modo il decentramento è intorno ai 4 mm).

    Fig.3 - Decentramento secondario

    Una volta posizionato il secondario rispetto all'asse ottico (centro del tubo), dovremo regolare la sua altezza all’interno del tubo rispetto al focheggiatore. Dalla posizione dell’oculare dobbiamo poter osservare il secondario ben centrato rispetto al tubo del focheggiatore.
  2. Inclinazione dello specchio secondario
    Posizionato lo specchio secondario nel tubo procederemo a regolare la sua inclinazione, ovvero, inserito il nostro tubetto collimatore dovremo regolare l'inclinazione dello specchio secondario in modo da vedere esattamente in linea il centro dello specchio primario.
    In questa fase ignoriamo completamente quello che vediamo riflesso nello specchio primario, concentriamoci solo sul suo punto centrale dello specchio. In questa operazione ci si può eventualmente aiutare utilizzando un tubo più lungo del nostro collimatore, che ci aiuta a traguardare meglio il centro dello specchio primario.
    Regolata l'inclinazione, ovvero lo specchio dovrà essere inclinato di 45 gradi esatti, dovremo ricontrollare la sua posizione (centratura rispetto al tubo e altezza rispetto al focheggiatore). Se è necessario intervenire su queste si dovrà poi nuovamente verificare l'inclinazione del secondario.
    Giunti ad una regolazione ottimale si passa a considerare lo specchio principale.
  3. Collimazione dello specchio primario
    Osservando lo specchio principale attraverso il nostro tubetto collimatore posto sul focheggiatore, vedremo oltre all'immagine riflessa dello specchio secondario anche l'immagine della croce del nostro collimatore, e attraverso il forellino centrale, anche la nostra pupilla dell'occhio.
    Dovremo agire sulle viti di regolazione della cella dello specchio primario finché il centro dello specchio e l' immagine riflessa della croce del tubetto (e del nostro occhio) saranno perfettamente allineate. Per scrupolo è conveniente ricontrollare almeno il punto 2 (inclinazione dello specchio) e se non risultasse a posto ripetere i punti 2 e 3 che richiederanno però solo lievissimi ritocchi.

Con un minimo di pratica è abbastanza semplice collimare tutte le ottiche con una precisione dell’ordine di 1-2 mm.
A questo punto il gioco è fatto: buone osservazioni!

Pulizie di primavera: il lavaggio dello specchio del telescopio

a cura di Giannantonio Milani



Chi tiene il telescopio in casa e in un luogo asciutto e riparato dalla polvere non avrà necessità di compiere l'operazione che vado a descrivere, se non assai di rado.
Il mio telescopio newtoniano, (20 cm di diametro, 80 cm di focale) è stabilmente sistemato nel poggiolo di casa, con una copertura realizzata con pannelli in policarbonato, che lo ripara dalle intemperie.  Polvere, smog e sporcizia tuttavia si infiltrano e si depositano nel tempo anche sulla superficie delle ottiche e questo rende  necessaria una periodica manutenzione e pulizia, da effettuare  per me almeno una volta all’anno (molto dipende dalle condizioni meteorologiche del periodo).
Il periodo invernale, appena trascorso è stato molto umido e questo ha  favorito il depositarsi di una patina opaca ormai ben evidente sullo specchio primario.

Lo specchio sporco

La sporcizia, oltre a ridurre la riflessione della luce, peggiora anche la qualità ottica in generale.
Approfittando finalmente di un sabato mattina soleggiato ho affrontato la pulizia.

E' da sottolineare che la pulizia di una superficie ottica (lente o specchio)  è sempre una operazione delicata e che va affrontata con cognizioni di causa e perfetta conoscenza del proprio strumento e delle sue caratteristiche. Ricordiamoci che uno striscio su una lente o uno specchio il più delle volte “è per sempre”!

Quanto vado a esporre vale solo per la mia situazione ed esperienza, ed invito chi si accinge ad imprese analoghe, e sopratutto chi è alle prime armi, ad affrontarla con molta prudenza ed attenzione, preferibilmente appoggiandosi a qualcuno di più esperto e competente.


Il lavaggio dello specchio


Smontata la cella dal telescopio e tolto lo specchio primario, la prima operazione è il prelavaggio.
Io lo realizzo ponendo lo specchio nel lavandino e lasciando scorrere per un po' di tempo l'acqua dal rubinetto direttamente sulla sua superficie per rimuovere e ammorbidire il grosso dello sporco (fig.1).

Figura 1 - Lavaggio dello specchio

Il secondo passaggio è il lavaggio con il detersivo (io uso quello da piatti) dove con  molta delicatezza si deterge la superficie dello specchio (fig2). Io procedo prima molto delicatamente direttamente con le mani (con le dita) e in seguito, altrettanto delicatamente con una batuffolo di stoffa  molto morbida o cotone.

Figura 2 - Lavaggio dello specchio

Segue un risciacquo con acqua corrente, sempre sotto il getto del rubinetto, per togliere tutte le tracce di detersivo, e infine un risciacquo finale con abbondante acqua distillata. L'uso finale di acqua distillata è fondamentale per evitare che durante l'asciugatura si formino aloni e impronte lasciate dalle gocce mentre si asciugano.

A questo punto, se abbiamo operato bene, lo specchio è pulito.
Lo si deve porre ad asciugare in posizione verticale (o lievemente inclinato se c’e’ il rischio che cada)  in modo che la maggior parte dell'acqua scivoli via dalla superficie e la rimanente si possa asciugare per evaporazione spontanea in poco tempo (fig.3).

Figura 3 - Asciugatura dello specchio

Nell'arco di  mezz'ora, o anche meno, lo specchio sarà probabilmente asciutto e pronto per essere ricollocato al suo posto.

Naturalmente, anche se è superfluo, raccomandiamo durante tutte queste operazioni di lavorare in ambiente sicuro: animali, bambini, curiosi ...potrebbero involontariamente danneggiare lo specchio.
Incredibile come, spesso,  il primo istinto di chi non sa nulla di astronomia e ottica possa essere proprio di andare a toccare con un dito la superficie lucida di uno specchio lasciando involontariamente impressa la propria impronta digitale!  Si è probabilmente abituati con gli specchi domestici dove la prima superficie è vetro (lo strato di argento è posteriore) e non è particolarmente delicata. Nel nostro caso la prima superficie è invece alluminio, o altre particolari leghe metalliche altamente riflettenti, spesso protette da un sottilissimo e invisibile strato di quarzo. La delicata superficie riflettente è direttamente esposta e il vetro serve solo da “supporto”.
Importante naturalmente anche lavorare in un luogo pulito (senza polvere), e dove accidentalmente non possa cadere alcunché sulle ottiche.

In pulizie occasionali di parti ottiche (senza lavaggio) fare attenzione a non utilizzare prodotti e/o tecniche inappropriate (ad esempio su internet si possono probabilmente reperire nel bene e nel male molti consigli, con tutti i rischi del fai-da-te non verificato). Se si tratta semplicemente di togliere poca polvere da piccole superfici è meglio utilizzare ad esempio, con molta delicatezza, un pennello morbido. In fotografia si utilizzano ad esempio pennelli molto morbidi dotati di un soffietto a mano.

In particolare fare attenzione a:

  • cartine per la pulizia delle lenti, contengono a volte silicone che unge in modo invisibile le superfici e facilita poi il depositarsi di ulteriore sporco. Prima di usarle (se riteniamo proprio di farlo, ma personalmente le evito dopo infelici esperienze) comunque bisogna rimuovere la polvere e la sporcizia che potrebbe rigare la superficie.
  • Pochi granelli di polvere non compromettono la resa dello strumento, ricordiamoci che la superficie è  molto delicata e la rimozione della polvere, se non fatta con le dovute cautele, comunque rischia di strisciarla.
  • non utilizzare alcool o altri solventi che, oltre  a lasciare aloni poi difficili da togliere, possono danneggiare irrimediabilmente lo strato anti-riflesso delle lenti.  
  • Il “rimedio della nonna” a base di acqua e sapone (eventualmente neutro per le superfici più delicate),  rimane probabilmente il più sicuro ed efficace.


La pulizia può essere anche una occasione per un controllo e una pulizia generale dello strumento.
Rimontando lo specchio al suo posto è poi indispensabile il più delle volte collimare le ottiche. Ma su come allineare gli specchi di un newtoniano se ne parlerà in altra sede.

Muografia fai da te

ESPERIMENTI DI MUOGRAFIA 19/01/2020

MUOGRAFIA cos’è. È una tecnica radiografica generalmente usata per ottenere immagini di oggetti, generalmente di grandi dimensioni, altrimenti irrealizzabili con altri procedimenti (Raggi X.)

L’ energia utilizzata nella muografia è fornita dai Raggi Cosmici (RC).

Fin dai primordi un flusso continuo di RC, costituito principalmente da protoni altamente energetici, investe il nostro pianeta. Nell’impatto con l’ atmosfera queste particelle decadono generandone altre, e fra queste il MUONE. Il muone è una sorta di elettrone “pesante” con massa circa 200 volte quella dell’elettrone e dotato di velocità relativistica, per cui possiede una elevata energia che gli consente di attraversare la materia. In questo attraversamento una parte della sua energia viene assorbita dal materiale: l’entità di questa cessione dipende dallo spessore, tipologia e densità del suddetto materiale.

L’assorbimento differenziato di questa radiazione consente di formare immagini in modo simile a quello delle più conosciute radiografie.

Un esempio recente di muografia professionale è stata la recente scoperta all’interno di una piramide egiziana di un vano vuoto prima sconosciuto. Una variante di questa tecnica viene utilizzata per il monitoraggio dello stato dei condotti magmatici e della caldera dei vulcani. Si usa anche per fare lo “screening” della cupola del Duomo di Firenze al fine di stabilire qual’è la forma e lo stato dei rinforzi esistenti nelle intercapedini.

Riferendoci ora al nostro esperimento, se nel flusso muonico viene posto un oggetto di alta densità, ad es. un cubo di ferro, i muoni vengono assorbiti dallo stesso assai di più rispetto all’aria circostante. I sensori registrano questa differenza, e con i dati raccolti si può formare l’ immagine dell’oggetto, come se fosse “proiettata “ su uno schermo.

STRUMENTAZIONE. Per rilevare la radiazione muonica i professionisti usano strumenti costruiti appositamente nei laboratori universitari e adattati all’indagine programmata. Ad esempio, nelle piramidi si sono utilizzate principalmente speciali lastre fotografiche ma anche strumenti elettronici, mentre in altri casi si impiegano esclusivamente “telescopi” puramente elettronici, che usano sensori di vari tipi. Esistono anche speciali telescopi ottici che rilevano, in notti particolarmente buie, il tenuo bagliore prodotto da muoni di altissima energia che impattano nell’atmosfera.

MUOGRAFIA FAI DA TE

Incuriosito da questa tecnica che implica lo studio e l’impiego dei muoni per scopi pratici, mi sono cimentato in alcuni esperimenti caserecci per vedere cosa ne usciva.

MuografoPrima approcio alla rivelazione dei muoni. Ho collocato uno di questi strumenti autocostruiti in una grotta dei Colli Euganei ed un altro, con sensibilità identica al primo, nelle vicinanze, ma all’aperto. Dopo 12 ore di funzionamento continuo e contemporaneo dei due strumenti, il risultato è stato che il numero di muoni contati in grotta era circa la metà di quelli contati all’aperto. Evidentemente la roccia della la grotta aveva assorbito buona parte dei muoni che l’avevano attraversata. Il sistema funzionava.

Secondo test. Invogliato dal risultato ottenuto, ho pensato di impiegare tre di questi strumenti per fare altre prove, questa volta in casa e con uno scopo diverso: un tentativo di muografia.

Il nuovo setup è costituito da un piccolo portale che regge un cubo di Fe di circa 25 cm di lato e che lascia nella parte inferiore lo spazio per il passaggio degli strumenti . Il test è volto a verificare se e come ciascun strumento rileva differenze di flusso muonico quando si trova fuori dal tunnel rispetto a quando si trova parzialmente o totalmente coperto dal cubo di Fe.

In particolare, il test consiste nel fare una scansione con i tre strumenti, allineati e resi solidali da un apposito supporto.

Alla fine del test, si dispone di tre serie di dati. Associando i valori numerici raccolti dai tre sensori a diversi toni di grigio e plottando i risultati di ciascun sensore su una tabella formata da tre colonne parallele, si ottiene una immagine del pezzo esaminato.

I dettagli di tutto il l procedimento sono descritti qui sotto.

Descrizione dell’attrezzatura.

MuografoNella foto si nota l’oggetto da muografare formato da otto piastre di Fe sovrapposte a formare un cubo, ed il portale che le sorregge fatto di profilati commerciali di Al e dotato di ruote per poterlo far scorrere lungo il percorso stabilito.

La scansione avviene spostando manualmente il portale in 12 passi successivi , distanti tra loro 50 mm. , al di sopra del gruppo sensori che rimane fermo. In ogni passo lo stazionamento dura 2 giorni per raccogliere la radiazione incidente , per cui ila durata complessiva del test ammonta a 24 giorni .

Ciascun “muometro” (non esiste un nome migliore codificato), è costituito da due tubi Geiger-Muller SBM19 di produzione russa. I tubi giacciono su un piano verticale, paralleli ed alla distanza di 100 mm.

Per discriminare i muoni provenienti dallo spazio dalle altre particelle di origine terrestre (radiazione di fondo ) si usa un circuito elettronico di “coincidenza”. Questo circuito verifica se una particella attraversa contemporaneamente (o quasi) i due tubi fornendo così un segnale del suo passaggio. In questo caso si tratta di un muone, mentre le particelle naturali, mille volte meno energetiche, si limitano ad ionizzare i due tubi separatamente (i ticchettii classici del Geiger), ma non riescono ad attraversare simultaneamente i due tubi, quindi niente segnale.

Oltre al fondamentale circuito di coincidenza, c’è un generatore di AT (400V), un circuito “splitter” che suddivide la tensione sui due tubi e produce segnali quando i tubi sono investiti da radiazioni, ed infine un circuito di squadratura del segnale stesso. L’energia per il funzionamento dell’apparecchiatura viene fornita dalla rete elettrica, ma ciascun muometro dispone di batterie al litio come backup.

 

Commento sull’immagine .

screenshotL’immagine è grezza e contiene poche informazioni. L’imprecisione della resa è dovuta alla rozzezza della strumentazione e al fatto che alla fine della scansione si sono raccolti comunque pochi dati utili. Fatti i conti, sarebbe come aver fotografato l’oggetto con una camera avente un sensore di soli 39 pixel! Inoltre i sensori Geiger per la loro stessa conformazione hanno dimensioni rilevanti. Nè è consigliabile l’impiego di tubi più numerosi ma più piccoli allo scopo di avere una migliore risoluzione, in quanto la sensibilità di ciascun piccolo tubo sarebbe troppo modesta e di conseguenza i tempi di integrazione crescerebbero a livelli inaccettabili.

L’immagine presenta al centro un’ ombra scura. Essa è prodotta dal cubo di Fe, e si è formata in quanto il flusso muonico viene assorbito dal blocco di Fe, mentre l’aria circostante lascia passare la radiazione essendo praticamente trasparente.

I dati che compaiono sono, a sinistra, la sommatoria di quelli effettivamente rilevati dai tre sensori A02, F01, A00 durante i dodici passi previsti. Al centro e a destra sono gli stessi dati, rielaborati per ottenere l’immagine in toni di grigio.

Come ho detto, l’immagine risulta grezza, con toni netti e pochi chiaroscuri. Ciò dipende dal fatto che la scala di grigio usata da Excel non è sufficientemente vasta. Ma più probabilmente dipende da una maldestra elaborazione dei dati fatta dal sottoscritto, dal momento che conosco poco l’uso di questo software.

Magari qualcuno più esperto può rielaborare gli stessi valori per vedere cosa ne esce…

Antonio Zanardo

> Software tutorials

In questa sezione raccogliamo una serie di tutorials (brevi lezioni) su alcuni tra i softwares più diffusi a livello astronomico-amatoriale.

Maxim DL

 

Turorials sul famoso software Maxim DL prodotto dalla Diffraction Limited

Acquisizione immagini

a cura di Paolo Tasca



Apertura programma e selezione camere CCD

Nel presente tutorial andremo a vedere quali sono le operazioni da compiere per acquisire correttamente una oppure una serie di immagini tramite camera CCD o webcam.

Aprire il programma facendo click sulla sua icona; comparirà la schermata principale che possiamo vedere nella figura succesiva. Nella stessa figura è presente un riquadro ingrandito che permette di visualizzare meglio la zona delle icone-menù dove trovare il controllo della camera CCD.
Per configurare e controllare la camera CCD premere il pulsante evidenziato con la freccia nera, nella riquadro ingrandito della figura.

Schermata iniziale di Maxim DL

Maxim DL è in grado di gestire diversi tipi e modelli di camere CCD, ma cosa più importante permette di controllare contemporaneamente sia la camera di ripresa principale che una secondo dispositivo da usare per l'autoguida.

Configurazione Camere CCD

Dopo aver selezionato il pulsante di configurazione delle camere CCD si apre una finestra.
Questa è la finestra PRINCIPALE per il controllo della camera CCD e quindi dell'acquisizione delle immagini. In base al tipo di operazione da effettuare, si userà uno dei tab presenti in questa finestra; i tab sono, nell'ordine:

  • [ Expose ] - permette di gestire l'acquisizione (esposizione) vera e propria delle immagini, sia singole che in sequenza.
  • [ Guide ] - configurazione e controllo del sistema di autoguida
  • [ Setup ] - configurazione delle camere CCD


Setup Camera CCD

Per configurare la camera CCD selezionare il tab <Setup>. La finestra di controllo dovrebbe apparire come quella di figura 2.
Per selezionare il tipo e modello di camera CCD e quindi attivarla, selezionate il pulsante <Setup camera>. Come si può vedere dalla figura 2, ci sono due sezioni di configurazione, una per la camera CCD principale, usata per l'acquisizione immagini, identificata dal tab “Camera 1”, ed una per l'autoguida, chiamata “Camera 2”. Dopo aver configurato le camere CCD, premere <Connect> per mettere in comunicazione il software con i dispositivi.

Da ricordare che una volta selezionate e configurate le CCD, il programma memorizza le impostazioni e quindi al successivo riavvio è sufficiente premere <Connect> e si è operativi.

Expose (Esponi)

Da questo pannello si possono acquisire le immagini, effettuare la messa a fuoco (focus) per entrambe le CCD ed attivare l'acquisizione di sequenze di immagini. Inoltre si ha la possibilità di poter gestire una ruota portafiltri motorizzata, permettendo quindi la scelta del filtro da usare per la ripresa. Ovviamente la ruota portafiltri deve essere di un tipo riconosciuto dal programma. 

Controllo dell'esposizione

Nella parte <Exposure Preset> sono memorizzate delle impostazioni predefinite come: Focus ,Focus Guider, Find star, Find DSO,  Image ecc.  Questi preset sono comunque modificabili a piacere; inoltre è possibile creare altri “preset”a seconda delle nostre particolari esigenze. Per ese

mpio, poter fare una immagine selezionando solo una parte del frame del CCD, oppure fare riprese in binning  non simmetrico  come ad esempio usare un binning pari a  1x200 pixels.

 

Tempo di posa

Nella sezione seconds si imposta il tempo di esposizione. Molto semplicemente il tempo deve essere espresso in secondi,  es. 300 secondi corrispondono a 5 minuti.

Per acquisire un'immagine, premere il pulsante “Start”. Dopo lo scaricamento (dei dati, dalla CCD al PC) verrà mostrata sulla finestra l'immagine appena acquisita come ad esempio nella figura sotto:

L'immagine appena acquisita


Foto singole o scatti in sequenza


Selezionare  <Single> per acquisire un'immagine singola (solo uno scatto alla volta) o <Continous> per effettuare scatti a ciclo continuo, metodo  molto utile per mettere a fuoco.

Ripresa singola o continua


Immagini a fuoco


Ci sono due preset per il fuoco <Focus> per la camera principale e <Focus Guider> per la CCD di guida. Questi sono molto comodi perchè a seconda della selezione fatta, l'impostazione passa da “Camera 1” a “Camera 2” automaticamente.

Il fuoco è importantissimo per avere della immagini di qualità ed è anche una delle operazioni più noiose e delicate.

Si procede in questo modo: selezionare il preset Focus e fare una immagine singola impostando il tempo di esposizione a seconda della luminosità della stella inquadrata. Importante ricordare che stelle molto luminose necessitano di tempi molto brevi per non saturare il sensore CCD, quindi scegliete  una stella non troppo luminosa e soprattutto che non sia una stella doppia, questo è molto importante altrimenti Maxim DL non è in grado di calcolare correttamente la FWHM, parametro importante per calcolare il fuoco.

NOTA importante!
Fare sempre il fuoco a binning 1x1 se le foto che avete intenzione di fare sono a piena risoluzione; se si fa il fuoco ad es 2x2 e riprese a 1x1 il risultato saranno immagini fuori fuoco.
Una volta fatta la prima immagine per il fuoco selezionate con il mouse un rettangolo su una stella singola, come mostrato nel seguente esempio:

Selezione della stella per il fuoco

in questa modo si possono scaricare molti fotogrammi velocemente per avere un fuoco in tempo reale e vedere l'andamento del fuoco.

Attivare la modalità “Continuous” e quindi dal pulsante “Options” selezionare (dal menù a tendina) la voce <Display Large Statistics>

Visualizzare i parametri per fuocheggiare

si aprirà una finestra come questa:

Parametri per il fuoco in tempo reale

Avviare quindi la messa a fuoco col pulsante <Start>. Sullo schermo principale compare una finestra con la stella al centro della selezione fatta precedentemente, ingrandire la piccola finestra con questi pulsanti

Zoom

la situazione sarà circa la seguente:

Fuocheggiatura

Il valore principale da tenere in massima considerazione per il fuoco ottimale è FWHM. Questo valore deve avere valori il più possibile bassi sempre compatibili con le condizioni ambientali seeing e tipo di ottica usata.

Il valore MAX indica la luminosità della stella. Se supera la soglia di saturazione del CCD il valore sarà 65535 (per una camera CCD con convertitore A/D a 16bit); ovvio che non conviene fuocheggiare su una stella saturata. Un ottimo esempio lo si ha anche sulla finestra camera control. Nell'immagine mostrata sotto viene rappresentata la forma a campana del profilo luminoso della stella; se la stella è saturata la punta di questo profilo risulta troncata di netto come se fosse tagliata come un panettone.


Curva FWHM per il fuoco

Dunque se la stella va in saturazione, abbiamo due modi per ovviare:

  1. ridurre il tempo di esposizione
  2. scegliere un'altra stella meno luminosa.

A questo punto possiamo metter mano al fuocheggiatore e muovere avanti e/o indietro (ovvero in posizione intra o extra focale) in modo da ottenere un “fuoco” il più preciso possibile, monitorando    l'immagine della stellina diventare sempre più piccola e luminosa e il valore FWHM diminuire di conseguenza. Saranno necessarie varie prove per avere un fuoco ottimale. Questi passi sono da ripetere anche per la camera di guida esattamente nello stesso modo,  sicuramente occorre molta pazienza e pratica per questa operazione ma gli sforzi compenseranno il buon risultato finale.

Impostare una sequenza automatica di acquisizione di immagini

Una grande e comoda utilità di Maxim DL è la possibilità di impostare un'acquisizione in sequenza di immagini e il salvataggio in una cartella da noi predefinita.

Questa opzione si attiva facendo click su <Autosave>

Autosave

Aprire una finestra per le impostazioni delle sequenze; iniziare immettendo un nome nel riquadro marcato in rosso <Autosave Filename>, questo sarà il nome dei file salvati (ad esempio “m42” se stiamo riprendendo Messier 42).

Atosave setup

Si attivano  poi gli “slot” o caselle per la ripresa automatica delle immagini,  evidenziato in rosso.
Per attivare gli slot premere il pulsante numerato in questo caso <1> evidenziato in blu; possiamo attivare al massimo 32 slot.
Il tipo di immagine  <Type>evidenziato in arancio: scegliere Light per le immagini vere e proprie oppure, Dark (per i drak frame), Flat (per i flat fields) e  Bias (per il rumore di bias); questo ci permette di acquisire i frames per la correzione delle immagini dai rumori.  
La voce <Filter> è attiva solo se si dispone di una ruota portafiltri .
Il suffisso <Suffix>, evidenziato in verde, viene aggiunto al nome del file. Ad esempio se le nostre immagini le chiameremo  m42 e  riprendiamo con un filtro H alpha possiamo impostare il suffisso come  “ha” per identificare velocemente le immagini già dal nome del file. In questo caso il nome dei nostri files, salvati, risulterà  avere questa forma: m42ha001.fts dove gli ultimi tre caratteri (numerici) identificano l'immagine nella sequenza, ovvero la numerazione progressiva che viene aggiunta automaticamente.  
In azzurro il tempo di esposizione  <Exposure> dei singoli scatti.
<Binning> evidenziato in blu .
Evidenziato in nero il numero degli scatti da ripetere <Repeat>  cioè quanti scatti  vogliamo fare.
Il riquadro verde <Estimated Duration>  calcola il tempo necessario per tutta la sequenza.
  <Apply> per confermare la sequenza.

Per salvare i nostri files nella cartella che preferiamo impostare dal menù a tendina  <Option > evidenziato in azzurro  <Set Image SavePath...>  come nell' immagine

Save image path 

 

Si apre una finestra di dialogo che ci permette di definire la cartella dove vogliamo vengano memorizzati i files acquisiti.
Impostata la cartella premere <Apply> e poi <OK>.

Salva le immagini


Per avviare la sequenza dal tab <Expose>; con l'opzione autosave attiva (check) premere “Start”.

Le immagini vengono acquisite e automaticamente salvate nella cartella che abbiamo indicato precedentemente, fino al termine delle pose programmate, se vogliamo ripetere la sequenza basta premere ancora <Start> 
nota, se ripetiamo la sequenza la numerazione dei file riprende dopo l'ultimo file salvato,  esempio se l'ultimo file si chiama (m42ha005.fts) la sequenza riparte dal numero 6


Inizio sequenza


A fine serata prima di spegnere il programma ricordarsi di disconnettere  le CCD con il pulsante <Setup> e <Disconnect> per poi chiudere il programma.

Fine programma

Autoguida

a cura di Paolo Tasca



Dopo le operazioni di messa a fuoco e quindi avere puntato la montatura sul soggetto scelto per la nostra sessione fotografica abbiamo bisogno di guidare se vogliamo fare foto con tempi di esposizione superiori ai classici 30 secondi circa. Per far questo bisogna istruire il sistema di autoguida su come è orientata la CCD di guida,  la velocità di spostamento ecc..

Questo per dare modo al programma di pilotare correttamente i motori della montature per ottimizzare l'inseguimento. In pratica una autoguida fa quello che nei tempi passati faceva l'astrofilo con l'occhio nel telescopio di guida e la pulsantiera nelle mani e controllava la deriva del telescopio .

La prima operazione da fare è inserire la focale del telescopio di guida nella apposita sezione che si trova nel menu File > Settings > Site and Optics

Impstazione autoguida

Nella sezione bordata di nero (nella figura) inserire i dati del vostro telescopio principale. Nella sezione rossa il telescopio di guida,  se si usa lo stesso telescopio principale anche come guida (per esempio se avete una CCD con il doppio sensore o se usate una guida fuori asse) spuntare la voce <Same as main scope>

Utile anche inserire le coordinate del luogo di osservazione nel riquadro verde ma non sono indispensabili ai fini della  guida.
Fatto questo  selezionate il tab <Guide> in questo  pannello si impostano tutti i parametri per una corretta autoguida .

Controllo CCD autoguida

Si inizia con l'istruire la camera di guida che controlla la montatura. Per fare questo premere il pulsante “Settings”. Si accede ad un altro pannello dove si configura la camera di guida.
Nel riquadro verde selezionare “Control Via” > “Guider Relays” se la ccd ha la porta tipo “ST4” e controlla direttamente la montatura; “Main Relay” se a controllare la montatura è la camera principale (come ad esempio le camere CCD della Sbig con doppio sensore),  mentre selezionare ASCOM  Direct se il telescopio è controllato attraverso la porta seriale (Rs232) .

Nel  riquadro rosso si impostano i tempi di calibrazione in secondi  questi valori sono tanto maggiori quanto la focale del telescopio di guida è corta. Ad esempio, se la focale del telescopio di guida e di 400 mm il tempo si calibrazione sarà pari o superiore ai 20 secondi per gli assi X e Y  questo per permettere alla stella di muoversi di più di 5 pixel pena un errore di Maxim DL che avverte che la stella  non si è spostata a sufficienza sula matrice del  CCD.
Si può anche abilitare o disabilitare i singoli assi  X o Y della montatura se necessario in base alle propria strumentazione. Nel tab <Advanced> si può abilitare la guida in simultanea  dei due assi,  da tenere presente che alcune montature non permettono questa funzione.
Si possono anche scambiare gli assi tra di loro.

Queste operazioni sono necessarie solo la prima volta infatti Maxim DL ricorda le ultime impostazioni inserite a meno che non si cambi qualche cosa come il tipo di telescopio  o la CCD di guida.


Impostazioni autoguida


Impostazioni autoguida

 

Calibrazione e Guida

Una volta fatto questo si procede alla calibrazione del sistema.
Si  imposta il tempo di esposizione; di solito si usano tempi da 1 a 4 secondi oppure tempi  più lunghi se le stelle di guida sono molto deboli e la montatura è in grado di inseguire correttamente. Purtroppo questo (che la montatura possa guidare) lo si può capire facendo delle prove sul campo. Non esiste un metodo facile a priori per capirlo.

Selezionare Expose > Start ed acquisire un'immagine. Il programma sceglie la stella più luminosa del campo in maniera automatica. Adesso selezionare  Calibrate > Start per avviare la procedura di calibrazione,  al termine della calibrazione se tutto procede in maniera regolare il programma disegna sull'immagine due righe rosse con l'angolo di inclinazione misurato come in figura di esempio:

immagine per autoguida

A questo punto per iniziare a guidare fare un'altra immagine Expose > Start poi selezionare Track > Start e parte l'autoguida.
É necessario qualche secondo perché il sistema di guida si stabilizzi. Molto utile è avere il grafico degli errori dell'inseguimento; questa funzione la otteniamo premendo il tasto <Graph>. Compare questa finestra dove si può vedere l'andamento degli errori nel tempo della guida:

Tracking errore

Molte volte bisogna intervenire sui parametri di aggressività per aggiustare la guida nel migliore  modo possibile, è necessario modificare questi valori in modo indipendente per ogni asse. L'aggressività è in breve "l'energia" con cui il sistema corregge gli errori di inseguimento.

controllo autoguida


Sempre osservando il grafico, provate a modificare i valori di X e Y in modo da ottenere il grafico più piatto possibile; l'ideale sarebbe avere una bella linea piatta su tutti e due gli assi ma i miracoli non sono possibili in questo caso.

Breve guida all'uso di AstroImageJ

Mi è stato richiesto di scrivere una specie di breve manuale d'uso del programma di elaborazione immagini AstroImageJ.

Non è quello che troverete nel testo che segue, e ciò per i motivi che spiego di volta in volta.

Premetto che conosco il programma in modo sommario e che non l'ho ancora digerito bene. Io mi limito ad usarlo solo per la fotometria differenziale dei transiti, quindi la mia conoscenza è parziale ed incompleta. Mi limito quindi a fare una descrizione molto sommaria del programma, rimandando gli eventuali interessati a leggersi un paio di ben fatti manuali d'istruzione, cui accenno verso la fine della presente.

ImageJ, è un vastissimo e complesso programma di carattere scientifico-professionale per il trattamento di immagini elettroniche. Una serie di plug-in dedicati, ottenibili da vari siti web, lo rende capace di analizzare molti tipi di immagini digitali, ad esempio quelle tomografiche del campo medico o quelle petrografiche nelle scienze della terra.

AstroImageJ (d'ora in poi AIJ) è, per così dire, un suo figlio, specializzato nel trattamento ed analisi delle immagini astronomiche.
Io, con le limitazioni a cui ho accennato , lo uso esclusivamente per analizzare i transiti dei pianeti extrasolari, specie quando serve ricavare dati e grafici contenenti il massimo delle informazioni.
Non mi sono mai interessato però di utilizzarlo al di fuori di questo settore, per cui non ne conosco tutte le capacità.

A differenza dei più conosciuti Maxim, Astroart ecc.,  AIJ non può riprendere immagini. Tuttavia, partendo da una singola immagine o da una serie di esse, puo' calibrarle, compararle, fare sulle stesse varie operazioni matematiche e ricavare grafici analogamente a quanto fanno i citati software commerciali, ma facendo tutto ciò molto meglio. Ad es. capita a volte che Maxim non riesca ad allineare certe sequenze di immagini, specie se le stesse sono sfocate come spesso si usa fare in fotometria.  AIJ lo fa senza incertezze, molto più rapidamente e con grandissima precisione.

In generale, gli strumenti disponibili in AIJ sono numerosi e potenti, specie quando si arriva a “plottare” il prodotto finale, cioè i vari grafici.
Va da sé che la vastità e complessità delle funzioni contenute in AIJ lo rende difficile da apprendere e da usare, specie per chi, come me, non sa ancora a cosa si riferisca l'acronimo BJD-TDB(data o tempo espresso in qualche strana maniera?) o il termine “limb darkening” o il parametro “Quadratic LD u1/u2”.

AIJ ha poi un grosso vantaggio: oltre ad elaborare e fornire dati a bizzeffe, non costa nulla, e in periodi di vacche magre... un software così potente e gratuito... vale la pena di farci un pensierino, basta saperlo usare solo un po'. Lo si può scaricare liberamente dal Web cercandolo con la chiave “astroimagej download” e seguendo le istruzioni per l'installazione.

Tornando a quanto accennato all'inizio, un'ottima guida per l'utilizzo di AIJ, limitatamente al campo dei pianeti extrasolari, è “A Practical Guide to Exoplanet Observing – Revision 2,1 – June 2016 -  By Dennis M. Conti” ottenibile all'indirizzo www.astrodennis.com . Si tratta di una trentina di pagine in inglese, che spiegano passo-passo le operazioni da svolgere per ottenere le agognate curve di luce, corrette, “detrendizzate” e con la magica linea di “best fit”.
Da queste pagine mi sono stampato un pratico libricino da consultare al volo quando serve.

Per informazioni ed istruzioni più generali sull'uso del programma c'è l'help, anch'esso ben fatto ed in inglese, che spiega passo passo cosa fare e cosa aspettarsi dalle proprie azioni. Vi si accede appena lanciato il programma che si presenta con una sconcertante piccola e scarna finestra, ed andando a cliccare sulla voce HELP.
Ma non c'è da illudersi per il modesto aspetto della  finestrella iniziale: essa è come la navicella di Caronte che ti trasporta oltre lo Stige in un programma da fare accapponare la pelle!

Antonio Zanardo